domenica, febbraio 28, 2010

Torna il buon calcio al Camp Nou.

E succede che la partita migliore da un po’ di tempo a questa parte è anche la vittoria più sofferta. Il Barça infatti, reduce dalla tragedia scampata (ma figuraccia non evitata) di Stoccarda, si era trovato all’81’ a pareggiare una partita che aveva davvero fatto di tutto per stravincere, se non fosse che anche il gol del momentaneo 1-0 di Pedrito era arrivato dopo l’ora di gioco. Il calcio è bizzarro, lo sappiamo, ma pochi minuti dopo la doccia fredda firmata Valdo, è Messi, al termine di una magnifica azione manovrata da un lato all’altro (sublime passaggio filtrante di Xavi), a ripristinare la logica e riportare luce su un Barça che sul piano del gioco ha dimostrato una certa capacità di reazione rispetto alle ultime (e non solo le ultime) preoccupanti prestazioni.
La reazione è partita dalla panchina: Guardiola cerca nuove combinazioni, rimescolando un po’ le posizioni dei giocatori. Passa a una sorta di 4-2-1-3 (praticamente 4-2-4), una soluzione già intravista in alcune partite, e l’intento è quello di liberare per questa via tutto il fútbol di Messi. L’argentino fa il trequartista davanti a Xavi e Busquets, Iniesta va all’ala sinistra, Pedro a destra. La mossa funziona, perché Messi può andare dove gli pare, e al tempo stesso il Barça non deve sperare in improbabili spostamenti di Ibrahimovic per allargare la manovra. Ci pensano Iniesta e, soprattutto il binomio Pedro-Alves a destra. Ottimo il canario nell’allargarsi o stringere per appoggiare i centrocampisti a seconda dei casi, fondamentale il ritorno del brasiliano per fornire uno sfogo in profondità negli spazi lasciati da Pedro.
Il buon funzionamento della catena di destra è positivo in sé ma ancora di più per le ricadute che ha sul gioco di Messi: con Pedro-Alves a portare via gli avversari, diminuiscono le possibilità di raddoppio sul Pallone d’Oro, che partendo tra le linee, fronte alla porta, ha in più di un’occasione l’opportunità per partire con le sue azioni palla al piede oppure dare l’ultimo passaggio.
È un Barça che aprendo meglio il campo sulle fasce può trovare più spazi anche al centro, ed essere più verticale. Con un contesto così favorevole a Messi in zona centrale il Barça può essere verticale senza dipendere troppo dai movimenti di Ibrahimovic, e dispone di un uomo in più nei pressi dell’area di rigore per concludere sui cross. La buona occupazione dagli spazi in profondità come in ampiezza al tempo stesso toglie pressione a Xavi, che ha opzioni più chiare di passaggio e può vedere meglio il gioco: grande serata del catalano. Il Barça gioca bene perché, come non succedeva da tempo, le buone prestazioni dei singoli alimentano il collettivo e viceversa, in un processo circolare.
I blaugrana mostrano una presenza e una continuità di manovra nella metacampo avversaria considerevoli, questo 4-2-4 sembra credibile come variante tattica principale (già ebbe successo nella ripresa con l’Estudiantes del Mondiale per club: tuttavia la rosa è un po’troppo corta per pensare di applicare questa variante al di là di situazioni sporadiche), ma proprio quando il tecnico culè torna al 4-3-3, con Iniesta mezzala, si sblocca il risultato grazie a Pedrito, che non fa a tempo a cambiare fascia che piega le mani a Munua con un destro dalla distanza.
Menzione d’onore anche per il Málaga comunque: un risultato diverso dalla vittoria del Barça non sarebbe stato veritiero, ma i blaugrana se li sono dovuti andare tutti a cercare gli spazi, con molta pazienza, perché di fronte avevano una delle squadre più organizzate del campionato, con una coordinazione nei movimenti difensivi (e un gran leader, Weligton) che contrasta in maniera stridente con quel Tenerife ancora una volta impietosamente bucherellato due ore prima dal Real Madrid. Agli andalusi è mancato un po’ l’appoggio sulla trequarti per ripartire (ha pesato l’assenza di Benachour, Baha inadeguato come quasi sempre in questa stagione, meglio l’ingresso di Forestieri), ma hanno tenuto il campo benissimo, pur dovendo fare i conti con assenze particolarmente pesanti come Jesús Gámez, Iván González e Apoño, oltre al citato Benachour. Se la partita è stata bella perchè seria, intensa, combattuta, il merito è anche loro.

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lunedì, febbraio 22, 2010

Uragano Cristiano.

Negli ultimi giorni su questo blog si discuteva approfonditamente su Cristiano Ronaldo. In particolare, si notava una certa ansia di incasellare tatticamente il portoghese. Cos’è Cristiano Ronaldo? Una prima, una seconda punta, un’ala’ o che cos’altro? La risposta ce l’ha data il scintillante 6-2 di ieri al Villarreal: Cristiano Ronaldo È IL REAL MADRID, semplicemente.
È il Real Madrid quando vuole essere profondo e verticale, è il Real Madrid quando vuole essere ampio, è il Real Madrid quando vuole essere veloce, tremendamente veloce. È lui che decide la direzione e il ritmo del gioco, il resto viene tutto di conseguenza. Sono una conseguenza i due gol a testa di Higuaín e di Kaká, i quali sfruttano gli spazi creati dal portoghese, ed è sempre Cristiano Ronaldo a creare il contesto più favorevole per la lectio magistralis in cabina di regia di Xabi Alonso, che se attorno a sé ha il giusto movimento fa correre la palla come nessuno.
È insomma l’ultima delle preoccupazioni capire quale mattonella del campo debba prendersi CR9. Sono gli altri che devono leggere i suoi movimenti e regolarsi in base a questi: è Granero che deve tagliare dentro o sovrapporsi verso l’esterno quando Ronaldo parte dall’ala; è Kaká che deve arrivare a rimorchio quando Ronaldo detta la profondità e trascina la difesa avversaria tutta dietro; è Marcelo che quando il fenomeno si sposta a sinistra deve saper interpretare il momento in cui inserirsi a sorpresa. Come in ogni organizzazione, è il boss che decide. E il gol su punizione quasi quasi è stata la cosa peggiore della partita di Cristiano Ronaldo…

Sottolineare la trascendenza di Cristiano Ronaldo implica necessariamente che il Villarreal sia stato spazzato via. C’è poco da fare, il Submarino fatica a recuperare la propria credibilità. Alla lunga non ha retto, ha provato a restare in partita, accorciando due volte le distanze, ma in realtà non c’è mai stato veramente. Non ha potuto perché non ha saputo rallentare mai il ritmo della partita, troppo alto per quelle che sono le caratteristiche del Villarreal, e ancora di più insostenibile se a dettarlo è Cristiano Ronaldo (con Xabi Alonso a tradurlo).
Juan Carlos Garrido ha provato a trasporre in prima squadra il 4-1-4-1 del suo ottimo Villarreal B, contando per questo su tre elementi della squadra filiale: il 19enne argentino Musacchio in difesa accanto a Marcano (causa assenza di Gonzalo e Godín), Matilla, “il piccolo Xavi” confermato nel cuore del centrocampo dopo lo scorso turno casalingo con l’Athletic (sul centro-sinistra con Senna sul centro-destra e Bruno davanti alla difesa), e Marco Ruben, centravanti nel Villarreal B ma ieri largo a sinistra per fare spazio a Nilmar al centro.
Non ha funzionato: l’argentino Ruben troppo sacrificato sulla fascia (anche se poi nel secondo tempo si accentra per accompagnare Nilmar), David Fuster più incursore che centrocampista di manovra partendo da destra, impalpabile peraltro. L’ideale sarebbe stato uno come Pirés, in grado di partire dalla fascia per accentrarsi e aiutare il triangolo Bruno-Senna-Matilla a congelare un po’il pallone e i ritmi. Il francese però è entrato quando il vantaggio madridista era ormai incolmabile, e il centrocampo amarillo (nonostante il golazo su punizione di Senna che ha replicato quello di Cristiano Ronaldo) è stato asfaltato dal minuto 1 al minuto 90+recupero.

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mercoledì, febbraio 17, 2010

La sindrome della Champions.

Era mia convizione e lo resta anche dopo ieri sera che Manuel Pellegrini sia il miglior allenatore che il Real Madrid abbia avuto da Queiroz in poi. Molto meglio avviato rispetto al portoghese, a Camacho, García Remón, Luxemburgo, López Caro, Capello, Schuster e Juande Ramos nella costruzione di una squadra dall’identità realmente riconoscibile, e questo al di là della campagna acquisti megagalattica (che aiuta) e di una certa discontinuità e immaturità che già prima di ieri era emersa in alcune partite di Liga.
Tuttavia, ripresentatosi l’ostacolo della Champions, anche questo Real Madrid ha immancabilmente riproposto l’immagine degli scorsi quattro anni: senza idee e senza personalità, roba forte per una società che pure come nessun’altra ha segnato la storia di questa competizione. Il Lione ha imposto il suo atletismo in un’intelligente partita di contenimento e contrattacco che poteva costare ben più cara al Madrid dell’1-0 finale. Merengues che con una sola occasione seria all’attivo (un contropiede di Higuaín sventato da Lloris nella ripresa, azione pericolosissima ma dall’origine decisamente casuale) possono ringraziare i loro santi, anche se al ritorno non sarà facile con le squalifiche di Marcelo e soprattutto Xabi Alonso.

La cosa peggiore del Real Madrid è stato quel farsi trascinare dalla corrente della partita, senza mai nemmeno provare a prenderla in pugno. Dopo un avvio aggressivo del Lione (che metteva in ansia specialmente Marcelo cercando il cambio di gioco verso i tagli di Govou sulla destra), si può infatti dire che per una ventina di minuti nel cuore del primo tempo il Real Madrid ha avuto anche un controllo del centrocampo. Un controllo più che mai vago e sterile però.
Pellegrini ha derogato al rombo (dobbiamo credere che non lo ritenga un assetto valido per le gare più delicate come questa?), forse per raddoppiare meglio sui terzini e le ali del Lione o non si sa per quale altro motivo, tornando al 4-4-2 di inizio stagione, con Xabi Alonso e Mahamadou (non Lass) centrali, Granero e Kaká falsi esterni e Higuaín e Cristiano Ronaldo di punta.

Si può giocare anche così, a patto che ci si muova però… Troppo leggibile, scarsa in profondità e scarsa in ampiezza la proposta del Real Madrid in questa fase.
Kaká e Granero provano timidamente ad aprirsi e a tagliare dentro, Cristiano accenna un paio di appoggi tra le linee e poi si eclissa, Higuaín è incommentabile: dovrebbe capire che se contro tre quarti delle squadre di Liga può bastare fare scena muta e aspettare l’occasione giusta per inventarsi il golazo che il giorno dopo strapperà ai giornali il solito “ah però, ‘sto Pipita!”, la Champions è una cosa ben più seria. Servirebbe un interrogatorio di polizia tipo quelli dei film: “dov’era ieri sera alle 20,45? Cosa faceva? Con chi stava? Era sicuro di giocare con quelli bianchi e non con gli altri?”. Domande che da troppi big-match di Champions l’argentino vede rivolgersi. Praticamente Higuaín si è marcato da solo: nessun appoggio al centrocampo, nessun movimento in profondità, nessuno di quei tagli dal centro verso l’esterno che pure rappresentano un’esigenza vitale nel gioco del Real Madrid volutamente portato a non presentare esterni di ruolo, puntando a costruire la superiorità numerica sulle fasce a partire dalla combinazione delle sovrapposizioni dei terzini con gli spostamenti alternati di attaccanti, centrocampisti laterali o mezzepunte.
Aggrava il problema poi Sergio Ramos, vero “caso tattico”. Non sono le prestazioni dell’andaluso in discussione, anzi ultimamente è quasi sempre fra i migliori, ma il suo impiego da centrale sembra togliere più che aggiungere alla squadra. Questo perché l’apporto da terzino del miglior Sergio Ramos è insostituibile nella rosa madridista: ieri nel primo tempo c’era Arbeloa, tatticamente bravo ma senza il passo e le qualità tecniche per conquistare il fondo. Nella ripresa Pellegrini ha corretto la situazione inserendo Garay al posto di Marcelo, spostando Arbeloa a sinistra e riportando Ramos sulla fascia, ma è bene prendere una decisione definitiva su questo punto.
Il Real Madrid del primo tempo ha finito così con l’ammucchiarsi al centro, facilitando il compito dei mediani francesi (impeccabile come sempre Toulalan, pallino personale) e della coppia di centrali difensivi Cris-Boumsong, molto attenta nell’occasione.

Altra nota assai dolente della serata madridista la prestazione di Granero, che mostra ancora una volta una personalità non all’altezza di certe sfide. È proprio il canterano a perdere palla nell’azione che avvia il gol decisivo di Makoun.
Il Madrid del dopo-gol è anche peggio di quello precedente, lo scarso autocontrollo rischia di compromettere anticipatamente tutta la qualificazione. Meglio il controllo sterile del primo tempo che giocarsela alla roulette russa: i blancos ora attaccano infatti a testa bassa e con iniziative individuali che sfilacciano la squadra e aprono strada al contropiede lionese, il quale si appoggia sull’indomito Lisandro López e va in più di un’occasione vicino al raddoppio.
Fortuna per il Real Madrid che l’avversario finisca prima la benzina, non costringendolo più a guardarsi alle spalle nell’ultimo quarto d’ora. Kaká partecipa, cerca spazio sulla sinistra, ma non incide: non ci siamo proprio se ogni volta che ha di fronte l’avversario il brasiliano cerca qualcosa che aggiri il problema di questa scarsa incisività individuale, vuoi un tiro fiacco vuoi un passaggio insignificante. Entra Benzema per Higuaín, e offre un po’ più di partecipazione e movimento rispetto al Pipita, ma non ha occasione di lasciare il segno in fase conclusiva. È un dilemma attorno al quale si trascinerà fino alla fine la stagione madridista: uno, l’argentino, ha il gol ma non ha il gioco, l’altro, il francese, ha il gioco ma non ha gol (o comunque ne ha di meno).
Ma anche al di là di questo dualismo, va detto che manca al Real Madrid un po’ di presenza in area: lo stesso Higuaín per fare i suoi gol preferisce andarsi a prendere il pallone fuori area. Non voglio essere fanatico su questo punto, nessuna legge prevede la presenza obbligatoria di un centravanti d’area e la sua assenza di per sé non pregiudica la costruzione di una grande squadra, però in alcuni frangenti, come l’ultimo quarto d’ora di ieri, non sarebbe capitato male un bomber in grado di semplificare le cose e forzare qualche palla gol in più negli ultimi metri. Qualcuno ha nominato Van Nistelrooy?

FOTO: elmundodeportivo.es

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lunedì, febbraio 15, 2010

Senza freno e senza testa.

La tradizione recente del calcio spagnolo vuole che quelle fra Atlético Madrid e Barça siano le sfide più pazze, imprevedibili ed emozionanti. Partite nelle quali fioccano i gol, conseguenza della mancanza di controllo sul match da parte di tutte e due le squadre. Stavolta i gol son stati relativamente pochi, tre, ma la mancanza di controllo è stata ribadita, e si è riflessa in maniera piuttosto logica nella vittoria finale dell’Atlético.

Alla vigilia la chiave della gara per il Barcelona consisteva nell’annullamento dell’unico vero punto di forza dell’Atlético, cioè il contropiede. Difetto annoso dei colchoneros è infatti quello di non saper affrontare in blocco, coralmente e in maniera articolata, le due fasi. Quando però non c’è la necessità di organizzare la manovra, e si presenta il ribaltamento in campo aperto, poche squadre in Europa possono dispiegare il potenziale dell’Atlético. L’esuberanza di Forlán, i colpi da Romario reincarnato di Agüero e l’ispirazione di un Reyes ritrovato possono decidere qualunque cosa in uno scenario simile.
Il modo in cui il Barça poteva scongiurare tale scenario non passava naturalmente per una difesa bassa con contropiede (praticamente una violazione delle ragioni sociali del club oltre che una strategia chiaramente inadatta), ma attraverso una transizione offensiva estremamente controllata nelle geometrie e nei ritmi: avanzare in blocco ma rischiando meno possibile sui primi passaggi, non essere precipitosi nel verticalizzare e mantenere le distanze corte fra i giocatori e fra i reparti nel mentre che si avanza col possesso-palla. Insomma, accorciare nella metacampo avversaria difendendendosi col pallone, una ragnatela per congelare il gioco e frenare i ribaltamenti da una metacampo all’altra, quelle partite senza centrocampo che tanto esaltano i solisti offensivi dell’Atlético.

Come non detto. Xavi tenta un cambio di gioco, ma è troppo corto e così perde proprio uno di quei palloni che non si dovrebbero mai perdere, con la sua squadra che si sta distendendo. Senza rete di protezione per l’improvvisata difesa blaugrana (la marea di assenze costringe a proporre la coppia di centrali del 2007-2008, Puyol-Milito, ma soprattutto a rattoppare la fascia destra con Jeffren, ala già adattata a terzino destro in Copa del Rey contro la Cultural Leonesa), per uno come Reyes è un gioco da ragazzi rientrare sul sinistro, scartare Busquets e imbucare in profondità per il gol di Forlán.
Su Reyes non si può giurare nulla, perché lui funziona così: si esalta solo quando ha uno stimolo, in questo caso quello di dimostrare che non è un giocatore finito, ma va anche messo in conto che non appena la gente tornerà ad elogiarlo, lui si sentirà talmente sicuro del proprio status riconquistato da tornare il fannullone di sempre. Comunque, ora come ora, in quest’Atlético dalla manovra allo stato brado, lui è la cosa che più si avvicina a un rifinitore, il giocatore più importante nel condurre le controffensive, partendo dalla destra e con un angolo visivo più ampio per scegliere la giocata.

L’andazzo del primo gol colchonero si estende a tutti i primi 20-25 minuti, perché il Barça non congela un bel nulla e si espone ad altre figuracce analoghe, vedi un nuovo contropiede servito su un piatto d’argento, stavolta sprecato da un Agüero a due facce, devastante nello smarcarsi e nel ridicolizzare i difensori avversari in quegli uno contro uno cui troppo spesso il Barça si è esposto, ma insolitamente timido e impreciso nelle finalizzazioni. Poco male, ci pensa Simão a dipingere su punizione il sacrosanto 2-0.
La reazione del Barça c’è, ma fino alla fine non sarà mai sufficientemente salda e autorevole. L’impressione offerta dai blaugrana è stata quella di un undici disorganico, nel quale la cattiva resa del collettivo ha sottolineato le mediocri prestazioni dei singoli: l’infortunio muscolare ad inizio partita a Keita (giocatore più importante di quanto si pensi) è una disdetta, ma hai comunque poco da lamentarti se il rimedio in corsa consiste nell’arretrare Iniesta a centrocampo!

Non funziona la coppia Puyol-Milito, non solo perché soffrono ahiloro quegli uno contro uno che qualunque difensore al mondo soffrirebbe contro gli attaccanti colchoneros, ma perché non aiutano la squadra a distendersi impostando dalle retrovie (Márquez-Piqué in questo sono un’altra cosa, non ci vuole la scienza…); funzionano malissimo i terzini: Jeffren è totalmente inadeguato, non offre uno sbocco in fase offensiva ed è costantemente a rischio di seconda ammonizione (non a caso Guardiola lo sostituisce con Bartra, altro canterano candidato per quella maglia, centrale adattabile a destra, più ordinato di Jeffren ma senza il passo e la tecnica per dare profondità, almeno per quanto intravisto ieri), Maxwell invece si conferma acquisto poco azzeccato (non attacca e non difende, l’infortunio di due mesi ad Abidal peserà: il francese stona un po’in fase di possesso, però la sua fisicità risolve parecchi problemi quando ci si scopre e occorre recuperare in campo aperto, proprio come ieri sera).
A centrocampo, Busquets ha sofferto da matti a difendere correndo verso la propria porta (una cosa più da Yaya Touré), Iniesta e Xavi ci hanno capito poco, perché poco ispirati e con pochi riferimenti utili. Il Barça ha occupato male il campo e gestito peggio il pallone. Con un Pedrito estraneo alla manovra (e Henry che fine ha fatto?), Messi si è trovato a fare la guerra per conto suo, e accanto a un paio di iniziative pericolose (praticamente inevitabili visto il giocatore), c’è stata anche tanta confusione.

Dulcis in fundo, Ibrahimovic nonostante il gol continua a lasciare molto perplessi, e stavolta non si è trattato tanto di una questione di movimenti, ma di qualcosa di più preoccupante, un’evidente incapacità di incidere anche con le giocate individuali: in più di un’occasione si è smarcato e ha trovato la profondità, ma ha perso tutto il tempo con controlli da bradipo ed esitazioni sconcertanti.
Non sarò io a demolire un acquisto che in estate poteva avere le sue valide ragioni, ma il rendimento degli ultimi due mesi è sotto gli occhi di tutti, e insomma, a qualche rimedio bisognerebbe pur pensare.
In questo caso Guardiola è di fronte a un dilemma: Zlatan meriterebbe di riflettere a lungo in panchina, ma questa potrebbe essere una mazzata al carattere delicato di un giocatore che resta un investimento importante. L’altra faccia del problema è Bojan: l’ispano-serbo ha caratteristiche potenzialmente preziosissime, però non crescerà mai con gli spezzoni sporadici che Guardiola gli regala attualmente. Un suo inserimento convinto nell’undici titolare (o perlomeno “nel giro” dell’undici titolare) potrebbe togliere alcune castagne dal fuoco nella fase più calda di questa stagione, ma avanti di questo passo Bojan rischia di recitare la parte del Hleb dell’anno scorso, un giocatore sottoutilizzato, demoralizzato e senza il rodaggio adeguato per costituire un’alternativa valida nelle gare-clou.

Non è la prima gara che il Barça gioca in maniera così approssimativa, anzi se ne sono viste troppe finora. La differenza è che quasi sempre i blaugrana se la son cavata con il “saper competere” ereditato dalla scorsa stagione, e che stavolta il potenziale offensivo avversario ha infierito e messo in maggiore evidenza queste difficoltà.
Un Atlético che, bisogna sottolinearlo, pur restando lontanissimo dall’ideale di squadra affidabile, ha offerto ieri una prova di una certa serieta, ordinata soprattutto per quanto riguarda le distanze fra centrocampo e difesa. Tiago-Assunção è un doble pivote che perlomeno sulla quantità funziona, mentre il più che logico concentrarsi sulle “bestie” dell’attacco non ci deve far dimenticare la continuità di rendimento che sul centro-sinistra della linea difensiva sta garantendo il canterano Domínguez: assieme a Reyes sembra un’altra scommessa vinta da Quique, che lo ha reso inamovibile, accanto a Perea e col definitivo spostamento di Ujfalusi a destra. Al ragazzo non si può chiedere di fare da balia a Perea, però la sua parte la fa sempre. La cosa più importante è la sobrietà e la concentrazione che dimostra, e parliamo di uno che a 20 anni fa IL DIFENSORE CENTRALE NELL’ATLÉTICO MADRID, uno dei mestieri più pericolosi senza ombra di dubbio.

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domenica, febbraio 14, 2010

Protagonisti: Soldado (Getafe).

Il mestiere del centravanti


Nome: Roberto Soldado Rillo.
Luogo e data di nascita: Valencia, 27/5/1985.
Altezza: 1,79 m.
Peso: 81 kg.
Ruolo: centravanti.

Volgari parassiti dediti allo sfruttamento del lavoro altrui pur di rubare un titolo o una copertina in più. Se la massima più cinica del calcio, alla cui logica in questo blog tendiamo a opporci, vuole che alla fine sugli almanacchi ci appaia solo chi vince (quindi la Grecia 2004 sì e Olanda 1974 no), la sua rappresentazione più stringente sul campo la danno quei centravanti da due gol ogni mezzo pallone toccato a partita. Giustificano soltanto in base al gol la loro presenza, ma ciò li rende inattaccabili.
Pur rispettando i suoi incontestabili meriti, non ho mai amato particolarmente questa figura: se il calcio moderno prevede una partecipazione costante di tutti i giocatori ad ogni fase del gioco, ho sempre visto come un controsenso e una sottrazione al bene del collettivo quegli attaccanti portati solo ad aspettare la palla giusta in area avversaria. Inizialmente nella categoria, che ha in Trezeguet uno dei principali archetipi, avevo inserito anche Roberto Soldado, ritenendo che ogni suo gol meritasse al massimo un’alzata di sopracciglio e che, detta tutta, difficilmente la sua presenza potesse costituire una forte motivazione per la visione di una partita.

Errore, grosso errore. Il gioco di Soldado rimane votato a un’estetica minimalista, non appassiona di certo a una prima occhiata, ma addentrandosi con la lente d’ingrandimento nei suoi novanta minuti si rimane appagati. “Gudari” (traduzione letterale di “soldato” in euskara, soprannome dei tempi dell’Osasuna) sale in cattedra e offre una lezione magistrale su come un centravanti deve intendere il proprio ruolo. Essenziale e tremendamente funzionale.
I palloni toccati rimangono pochi, ma son quasi sempre quelli giusti: a suo modo, in misura certo ben inferiore a quella di un fuoriclasse, anche lui è uno che fa giocare meglio chi gli sta attorno, per la maniera in cui i suoi movimenti immancabilmente perfetti razionalizzano l’azione offensiva.Una lettura esemplare di come smarcarsi o creare spazi utili alla finalizzazione sua e dei compagni: fingo di dettare il passaggio in profondità e invece vengo incontro per fare da boa o girarmi e proseguire palla al piede; al contrario: fingo di venire incontro e invece attacco in profondità, allungo la difesa avversaria e aumento anche lo spazio a disposizione dei centrocampisti per l’inserimento a rimorchio; in area di rigore: faccio per smarcarmi sul primo palo e invece mi fermo a centro area o attacco il secondo.
Il mestiere del centravanti è fatto di tante piccole, ripetute bugie da raccontare ai difensori per guadagnare quella frazione di secondo in cui si decide tutto. Soldado, bisogna dirlo, è un mentitore di prima classe, uno degli attaccanti più difficili della Liga da anticipare e da marcare, e ciò lo rende un punto d’appoggio preziosissimo per l’azione della propria squadra, e non solo in fase di finalizzazione.
Finalizzazione che comunque resta da sempre il fiore all’occhiello del repertorio di Soldado, implacabile col pallone giusto a disposizione. Di testa, di piede, in acrobazia, con effetti in più di una volta spettacolari, frutto della combinazione di quel sesto senso che permette di inquadrare la porta anche quando non rientra nel campo visivo e di splendide doti di coordinazione che in questa stagione hanno consentito capolavori come il destro al volo in scivolata e da angolazione simil-Van Basten contro il Xerez o come l’ultimo gol nella semifinale di Copa del Rey immeritatamente persa contro il Sevilla, un difficilissimo e millimetrico colpo di testa in torsione verso l’angolo opposto. Il gol più bello sarebbe stato però quello mancato di pochissimo alla seconda giornata col Barça, quando un’inverosimile rovesciata da sdraiato a terra si infranse sul palo, un colpo un po’ “freak” ma da delantero centro eletto.
Questi i punti di forza ma paradossalmente anche i limiti del giocatore. Abbiamo infatti elencato finora una sorta di manuale del perfetto centravanti, ma il fuoriclasse è quello che sa anche uscire dai manuali. Soldado conosce il suo ruolo alla perfezione, ma non ha quella magia capace di stravolgere il copione propria dei fenomeni, e non risulta dominante in nessun particolare aspetto.
Ha discrete doti di palleggio, non ha problemi ad agganciare e mettere giù nel migliore dei modi una palla lunga, ha un calcio secco e preciso e un tocco di palla pulito, ma per quanto corretto il suo bagaglio tecnico è ideale soltanto per soluzioni standard, non consentendogli di inventare nuove e più geniali soluzioni dal nulla.
Fisicamente è compatto e solido, difende bene palla e resiste ai contrasti, però anche a causa della statura non eccezionale per un centravanti non è quel mostro che possa condizionare i movimenti dell’intero reparto arretrato avversario. Se scatta con i tempi giusti tiene botta anche sulla lunga distanza, ma non ha quell’esplosività e quel passo che brucia l’erba capaci di trascinare dietro la difesa e tutto il baricentro avversario.
Insomma, qual è la vera dimensione di Soldado? A ventiquattro anni, alla sua miglior stagione (11 gol in 19 partite finora, vicinissimi i 13 della scorsa stagione, record personale in Primera), giunto alla piena maturazione, possiamo dire che ha tutto il diritto di giocarsela per quel terzo/quarto posto da attaccante della nazionale che si contendono già Fernando Llorente, Güiza, anche se diventa più che mai difficile ritagliarsi uno spazio in un gruppo così consolidato (la mia prima scelta resta comunque il bilbaino).
Di certo c’è che Soldado non è più il tipico canterano madridista in continua attesa di verifiche tra un prestito e l’altro. Un po’ di anni così li ha passati anche lui: prelevato quindicenne dal Don Bosco, club dell’area valenciana, come canterano merengue gode di una vetrina maggiore rispetto alla media dei pari età, vince un Europeo nel 2005 con la nazionale Under 19, sotto López Caro esordisce anche in prima squadra nella stagione 2005-2006 (10 presenze in Liga, una sola dall’inizio, due gol e lo sfizio anche di un centro in Champions con l’Olympiacos e uno in Copa del Rey a Bilbao; nel mentre non resta affatto indietro col lavoro nel Castilla, laureandosi vicecapocannoniere della Segunda con 19 gol, dietro Ikechukwu Uche), però fatica a liberarsi di una tutela tanto prestigiosa quanto soffocante.
A Gudari il prestito all’Osasuna la stagione successiva porta un buon raccolto (11 gol in Liga), ma nel 2007-2008 si torna punto e a capo: così come il contemporaneo acquisto di Saviola, il ritorno alla base di Soldado resta uno dei misteri più inspiegabili dell’era Schuster: non si parla mica di dargli una maglia da titolare, ma arruolarlo per fargli fare muffa riservandogli la miseria di 124 minuti in campionato (e ovviamente zero gol) non pare un’operazione particolarmente avveduta per un giocatore ancora in fase di crescita.
È con la cessione al Getafe nell’estate 2008 che Soldado si conquista una dimensione finalmente autonoma. Certo, realisticamente non potrebbe competere per una maglia con i Cristiano Ronaldo, Higuaín e Benzema, però anche lui nel suo piccolo può far parte del patrimonio attuale del calcio spagnolo.

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lunedì, febbraio 08, 2010

"Jugones" o cemento armato?

Dopo la frenata di gennaio, sabato scorso con l’inconsistente Espanyol il Real Madrid è tornato a offrire quelle buone sensazioni (solo nel primo tempo: nella ripresa hanno smesso di giocare, come da incomprensibile consuetudine) con cui aveva salutato il 2009.
Elemento caratterizzante delle ultime due vittorie madridiste è il centrocampo dei “jugones”: quattro elementi, sempre disposti a rombo, ma massimizzando le doti di palleggio. Posta l’indiscutibilità di Xabi Alonso e Kaká (anche di un Kaká quantomai gregario come quello attuale) ai vertici, sono il lato destro e il lato sinistro a restare mai pienamente definiti.
Dai Lassana Diarra a destra e Marcelo a sinistra della striscia positiva di fine 2009, si è passati, complici le assenze in tutti i reparti (che hanno comportato il ritorno di Marcelo terzino e lo spostamento al centro di Sergio Ramos nelle ultime due partite) a due mezzeali pure come Granero e Guti.

Granero sabato ha firmato la prestazione migliore di una stagione fin qui sottotono: ci si aspettava di più dal canterano, troppo spesso intimidito e poco sciolto nelle iniziative. Però Granero è di tutti i centrocampisti quello che meglio rientra nel profilo desiderato: un giocatore in grado di dare ritmo, qualità e agilità alla manovra appoggiando Xabi Alonso senza però disturbarlo come invece tende a fare Lass (che un po’ pesta i piedi al basco in zona centrale portando troppo palla); con tempi di gioco e movimenti senza palla più appropriati del Marcelo centrocampista (dai lampi notevoli ma anche piuttosto anarchico); con meno pause di Guti (comunque intonato sabato, con una buona predisposizione a giocare di prima senza eccedere in personalismi) e più resistenza e capacità nei ripiegamenti rispetto a Van der Vaart.

Il rombo tutto di palleggiatori può significare una circolazione di palla velocissima e transizioni offensive molto fluide: indubbiamente rafforza quella che è l’idea attorno alla quale Pellegrini intende strutturare il Real Madrid, cioè attaccare e difendersi sempre col pallone e sempre nella metacampo avversaria. Ciò non significa però che questo debba essere l’assetto definitivo: così come nei primi mesi di assestamento nel progetto (nei quali la squadra faticava ad accorciare nella metacampo avversaria e risultavano perciò maggiormente le debolezze difensive di Marcelo nei pressi della propria area) Pellegrini scelse per prudenza di avanzare il brasiliano, anche ora è difficile pensare che si possa giocare uno scontro di-quelli-che-ti-giochi-tutto con questo centrocampo.
Contro un Barça o contro una big di Champions non è preventivabile un Madrid che possa vivere 90 minuti su 90 nella metacampo avversaria, e allora servirà di più un giocatore come Lassana Diarra forte nei ripiegamenti e nei contrasti, capace di mettere una pezza anche per pura capacità atletica individuale (un po’ come Yaya Touré nelle fila nemiche) quando si produce qualche buco. E, anche se finora non è sembrato contare per Pellegrini, non va dimenticato l’altro Diarra, Mahamadou, tecnicamente inferiore a Lass, ma decisamente superiore come lettura delle situazioni, anche in fase di possesso.

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mercoledì, febbraio 03, 2010

Cade Mendilibar, fine di un’era.


Negli ultimi anni di Liga poche squadre come il Valladolid son risultate tanto riconoscibili da restare inconfondibili anche di fronte all’ipotesi immaginaria di un cambiamento improvviso di colori sociali. “Ehi, ma quello è il Valladolid di Mendilibar!”, te ne accorgi ad una semplice occhiata per l’approccio alla partita, per la mentalità e per i movimenti in campo. Un’identità fortissima, un’impronta tattica che si è imposta in maniera quasi dittatoriale sui singoli e ha garantito per tre anni una valorizzazione ottimale delle poche risorse a disposizione del club castigliano.
A partire dal girone di ritorno della scorsa stagione però è cominciato un calo inesorabile, e in questa annata il modello di gioco ha mostrato segni di stanchezza sempre più evidenti, fino alla decisione forse inevitabile dell’esonero di lunedì mattina, dopo il deludente pareggio casalingo con l’Almería che lascia il Valladolid sì ancora sopra le ultime tre, ma più per l’insipienza di Xerez, Zaragoza e (ahimè) Tenerife che per meriti propri.

È sorprendente che questo divorzio sia maturato proprio nella stagione in cui il Valladolid dispone della miglior rosa degli ultimi anni, ma non è paradossale: è un insuccesso frutto anche della rigidità di Mendilibar, assai efficiente quando si è trattato di plasmare squadre povere ma capaci di eseguire lo spartito a memoria, inadeguata però quando la rosa permetteva combinazioni di maggior qualità come quest’anno.
Il bilancio globale di questi tre anni e mezzo comunque non può che essere positivo: Mandilibar ha segnato la storia recente del club, risollevandolo da una depressione tecnica (ed economica), con una formidabile promozione alla prima stagione (2006-2007), e poi due meritate salvezze in Primera.

Una parola descrive meglio di tutti il Valladolid di Mendilibar: pressing, pressing, pressing… ripetuta incessantemente affinchè possa trapanare il cervello dei giocatori penetrandovi in profondità. La prima, indispensabile e innegoziabile, obbligazione del giocatore biancoviola è aggredire il portatore di palla. Ogni altra considerazione tecnica viene relegata in secondo piano. Pressing altissimo e linea difensiva all’altezza della metacampo: un equilibrio delicato, basta che salti un anello perché la catena si spezzi. Baricentro alto per un sistema di gioco estremamente aggressivo che però è errato definire offensivo, perché la preoccupazione di recuperare il pallone è la determinante principale, e la successiva fase di possesso ne viene condizionata oltre misura. Questa non ha una rilevante elaborazione autonoma: se l’avversario cerca la manovra, si può recuperare e attaccare con pochi metri da percorrere; ogni volta che invece ha ceduto il possesso-palla, questo Valladolid ha sempre un po’ faticato: pur essendo una squadra votata al dominio territoriale nella metacampo avversaria, non ha mai amato infatti elaborare l’azione da posizioni più arretrate.
Tuttavia nell’ultimo anno la catena si è spezzata con frequenza sin troppo eccessiva: i tanti gol incassati dal Valladolid hanno finito col suscitare più di una risata nei divoratori di highlights. Un minimo spazio scoperto e l’avversario verticalizza e buca la difesa alta senza problemi: difesa che tra l’altro ha mostrato una tenuta come reparto e come singoli sempre più problematica: da Luis Prieto ai nuovi acquisti Nivaldo e Arzo la sicurezza è un optional (e chissà cosa offriranno i freschi innesti invernali, il centrale portoghese Henrique Sereno e l’ex grande promessa Del Horno).

Il modello del pressing forsennato scricchiola da tempo, ma Mendilibar non ha potuto o non ha saputo riconsiderarlo, sbattendoci la testa fino a rompersela. Ha mostrato flessibilità nella scelta del modulo (il suo 4-2-3-1 aveva sempre accusato la presenza di pochi giocatori a concludere nell’area avversaria, così quest’anno è passato al 4-4-2, spostando il trequartista Canobbio e affiancando Manucho al vulcanico Diego Costa in attacco; in più in alcune gare ha provato la soluzione “alla Gurpegi”, con un mediano sulla fascia destra), ma non nell’idea di gioco, che è la cosa più importante.
Sempre inseguire gli avversari, e non il contrario, cioè cercare di costringere gli avversari ad inseguirti. Quindi doble pivote composto da animali da pressing come Borja, Álvaro Rubio, Pelé o il neopromosso canterano Carlos Lázaro, e mai nessuna possibilità per Medunjanin.

Il bosniaco è l’emblema di questa scarsa flessibilità di Mendilibar: mancino delizioso per eleganza, sensibilità di tocco e visione di gioco, tuttavia sempre considerato dal tecnico basco un anello troppo debole per la propria catena, a causa della scarsa propensione al pressing. Così Medunjanin si è dovuto accontentare di un impiego da trequartista a partita in corso, immodificabile qualunque cosa facesse, ripetuti gol decisivi e spezzoni di qualità compresi. Altro caso quello di Alberto Bueno, attaccante esile ma con molta tecnica e capacità di appoggio alla manovra, costantemente ignorato perché evidentemente le priorità sono altre, giocatori più fisici che si facciano valere sulle palle contese, come l’angolano Manucho che appena arrivato in Spagna promise la scorsa estate una trentina di gol (…so’ ragazzi…).
Eppure un altro Valladolid sarebbe possibile, con Medunjanin in regia (senza dimenticare l’alternativa Héctor Font: minor qualità ma caratteristiche simile), Canobbio falso esterno, due punte e un altro esterno offensivo da pescare nella rosa fra i validi mancini Marquitos e Jonathan Sesma e l’un po’ meno valido destro Nauzet Alemán (peccato l’infortunio a Sisi), con possibilità di inserimento anche per l’altro nuovo acquisto invernale Keko, in prestito dalla cantera dell’Atlético Madrid. Mai avuta tanta scelta: pure troppa per una squadra impegnata solo in campionato.
Con Diego Costa a guidare l’attacco c’è di che giocare e staccare le concorrenti per la salvezza, ma il nuovo tecnico Onésimo, promosso dalla seconda squadra, dovrà inventarsi qualcosa di originale. Non è più “quel Valladolid di Mendilibar”.

PS: Da più di una settimana ho iniziato una collaborazione con il sito “Sardegna-Diario Sportivo”, con una mia rubrica settimanale sul calcio spagnolo. Siete tutti invitati.

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lunedì, febbraio 01, 2010

Vorrei, ma non posso. Anzi, ora che ci penso non vorrei proprio.


Chi di questi tempi non ha cose più importanti a cui pensare e si angoscia nella ricerca delle ragioni del calo recente del calcio spagnolo di club, troverà la risposta più chiara ed esaustiva nella visione del Sevilla-Valencia di ieri sera.
Tanto sfoggio di Kanouté, Perotti, Navas, Villa, Silva e Mata per ottenere una simile, dozzinale porcheriola? Queste sarebbero le aspiranti terze incomode? Mah.

Se alla mediocrità del Sevilla di Jiménez ormai siamo però abituati (almeno hanno il pregio di avere poche idee ma chiare, e per questo si son meritati la vittoria: corsa e aggressività in mezzo al campo, qualche cross e attaccanti puntualissimi, vedi nell’occasione il Negredo doppiettista che si toglie pure lo sfizio di un golazo in pallonetto), è a quella del Valencia che non ci vogliamo arrendere. Questo era il banco di prova, e la cosa che conta di meno alla fine è proprio il risultato. Molto più della sconfitta il Valencia ha lasciato l’impressione devastante di una squadra senza uno straccio d’identità, votata a un profilo più che basso sottoterra.

Imputato numero uno, Unai Emery, che ancora non ci ha spiegato a che gioco voglia giocare. La formazione scelta per lo scontro diretto del Sánchez Pizjuan è stata qualcosa a metà fra la provocazione intollerabile e lo scherzo di cattivo gusto. Sarò pesante fino all’inverosimile su questo punto, ma Banega in panchina e Albelda-Marchena vuol dire una cosa sola: che ti crogioli consapevolmente nella tua mediocrità, che ci sguazzi.
Non ci insisto tanto perché ritengo che l’argentino abbia giocato finora tutte le partite da dieci in pagella o perché lo ritengo il centrocampista più forte del mondo. Lo ritengo molto più semplicemente lo spartiacque fra l’idea di quello che il Valencia potrebbe diventare e l’idea attuale di Valencia che invece non è né carne né pesce. Coltivare l’illusoria e superficiale sensazione di sicurezza che ti può dare un Marchena per il semplice fatto di avere più centimetri, più chili e più cicatrici preferendola alla sicurezza che ti potrebbe dare un giocatore capace di portarti a un livello molto superiore, a difenderti nella metacampo avversaria col pallone tra i tuoi piedi, è un pensiero da piccolissima squadra.

Forse il piano era quello di cedere metri per poi colpire in contropiede? Benissimo, lo puoi fare anche senza aggiungere Marchena ad Albelda, e con Banega ti riservi ulteriori alternative di gioco. Ma quello che si è visto ieri è esattamente ciò che avevamo sottolineato dopo la gara di Genova: squadra incapace di uscire in blocco palla a terra, squadra perciò spezzata fra i quattro giocatori offensivi (pressochè inesistenti perché tagliati fuori per più di un’ora) e alla fin fine molto più lunga e squilibrata di quanto non lo sarebbe stata con un Banega (che luogo comune vorrebbe scarso a difendere) a dettare i tempi e far salire la squadra. Silva è un poeta, ma non fa miracoli, con i sordi non ci può parlare nemmeno lui.

Un primo tempo buttato via così, quasi senza toccare la trequarti avversaria, e una ripresa del tutto confusionaria: entrano Banega e Zigic, ma non c’è un piano preciso, un po’ si butta la palla lunga un po’ si cerca il possesso-palla e alla fine non si fa nessuna delle due cose e, disorganizzati, si prende pure il secondo gol in contropiede.
Il capolavoro finale di Emery, già discutibile nella gestione dei cambi in tutte le partite precedenti, è la sostituzione Silva-Chori Domínguez a cinque minuti dalla fine, ovvero come fare scontenti due giocatori con un cambio solo. Aridateci l’Almería!

PS: Notizia amara della giornata l'esonero di Valverde al Villarreal.

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