lunedì, marzo 29, 2010

Duopolio e dintorni.

“Non ho visto la partita del Real Madrid, perché sapevo già che avrebbe vinto”. “Non so se gli avversari giocano al cento per cento”. Lasciando da parte la malizia fuori luogo della seconda frase, la prima parte del pensiero espresso oggi dal blaugrana Keita in conferenza stampa è la sacrosanta verità, e dalle partite del Real Madrid si estende a quelle dello stesso Barça, anche se il buon Seydou non si affannerà di certo a sottolinearlo. La Liga epocale dei supercampioni è una Liga dove alle due grandi basta scendere in campo per vincere, una domenica di più: che questo strazio finisca al più presto, così almeno potremo tornare a desiderare che ne cominci un altro.

E dire che l’incertezza del derby, il relativo consolidamento dell’Atlético sotto Quique, il rinomato potenziale offensivo colchonero facevano pensare alla vigilia a una gara combattutissima. Invece il divario è tale che a un Madrid grigio è bastata una fiammata di un quarto d’ora, “alla Schuster”, per capovolgere con irrisoria facilità la partita. Non è servito nemmeno regalare un rigore all’Atlético per rimetterla in piedi seriamente. La squadra con Reyes (purtroppo a fine primo tempo ha dovuto lasciare il campo a Jurado per un infortunio che lo terrà fuori anche dall’andata di Uefa col Valencia), Simão, Agüero (grande delusione della serata) e Forlán non ha spaventato una volta Casillas fino al fischio finale, e dire che il Real Madrid aveva anche un po’ tirato i remi in barca.
Unica cosa bella della serata colchonera il gol di Reyes (conclusione morbida piazzata sul secondo palo), che sottolinea le difficoltà di un Real Madrid inguardabile nella prima mezzora. Centrocampo come a Getafe, 4-4-2 più classico con Xabi Alonso-Gago centrali e Granero e Van der Vaart sulle fasce, ma dalla mediana in su è un Real Madrid troppo prevedibile. Eccessivamente rigido nelle posizioni prefissate, senza quei movimenti tra le linee, quegli incroci e quei cambi di posizione su cui si dovrebbe basare solitamente il gioco merengue per attirare gli avversari in una zona e poi cambiare gioco verso il lato debole.
Invece tutto molto leggibile: Granero si crede ancora una volta “Soldatino Di Livio” invece che Granero e Cristiano Ronaldo fa movimento ma per cercare di fare gol da solo più che altro. Al sistema difensivo dell’Atlético basta scivolare da un lato all’altro per coprire agevolmente (discreti comunque Ujfalusi-Domínguez, nettamente la coppia migliore di centrali), anche perché il Real Madrid non ha le caratteristiche per giocare un 4-4-2 classico con sovrapposizioni e cross, senza esterni di ruolo e oltrettutto con Arbeloa terzino destro (nuovamente Sergio Ramos centrale, stavolta obbligato dall’assenza di Garay).
Al Real Madrid però per risolvere il problema basta metterci più furia: non con grande ordine, però preme con più giocatori in area avversaria e mette dentro più palloni. Il castello di carte colchonero comincia a vacillare a fine primo tempo e crolla ad inizio ripresa. Protagonista Xabi Alonso, il giocatore migliore della stagione merengue assieme a Cristiano Ronaldo e Albiol: prima pareggia con un gol simile a quello di due settimane fa con lo Sporting, tap-in sul secondo palo su azione di calcio d’angolo (palle inattive che l’Atlético continua a soffrire, non importa quale allenatore ci sia), poi ispira il 2-1 con uno straordinario lancio ad occhi chiusi che smarca un Arbeloa brillante nell’inserimento e nella finalizzazione (non ha i piedi per avanzare a difesa avversaria schierata, però sa leggere il gioco il prode Álvaro). Il terzo porta la firma di Higuaín (mediocre prestazione), smarcato da Tiago che fa carambolare il pallone su Assunção (avete letto bene), e mi fermo qui perché non c’è altro da dire.

Non sono precisamente partite da brividi lungo la schiena quelle del Barça in questa Liga, lo abbiamo capito: quando non c’è un’incapacità nell’imporre il proprio gioco, c’è un controllo comunque blandissimo, come sabato a Maiorca. Hai voglia soltanto di vedere il gol, che tanto arriverà, e basta, archiviarla lì e passare alla prossima. Un po’ poco per il club che fa della ricerca dello spettacolo la sua bandiera, ma ormai manca pure la voglia di criticare, è andata così, la Liga viene gestita col minimo sforzo, e come test probanti rimangono solo la Champions e lo scontro del Bernabeu, che nella migliore delle ipotesi potrebbero servire da stimolo per offrire qualcosa di meglio.
Ha colpito due pali il Mallorca (una girata dal limite dell’area di Aduriz a inizio partita e una punizione di Borja Valero), ma non ha mai realmente contestato al Barça il controllo del match, a differenza dell’Osasuna infrasettimanale. Probabile errore di Manzano nella pianificazione strategica: vero che il Mallorca è una squadra che sfrutta bene il contropiede, con giocatori particolarmente adatti a gettarsi negli spazi dopo aver invitato l’avversario a scoprirsi, però il Barça devi pressarlo alto, all’inizio dell’azione, anche per evidenziare le difficoltà di Ibrahimovic ad attaccare lo spazio alle spalle della difesa.
Ibrahimovic, ecco: una delle poche note positive dell’ennesima vittoria burocratica blaugrana. Al di là del gol, lo svedese conferma i progressi già intravisti con l’Osasuna. Viene incontro al portatore di palla ma non si fa anticipare né commette goffamente fallo sul difensore avversario, partecipa costantemente e in maniera utile, offre uno sfogo ai centrocampisti e detta anche un po’ di profondità quando necessario.
È questo che gli si chiede in fondo, non importano né i giochini palla al piede né il dadaista assist di schiena offerto a Messi nella ripresa, non si pretende un “Ibracadabra” o amenità del genere, si pretende solo e soltanto Ibrahimovic Zlatan, l’ottimo giocatore che il Barcelona ha messo al centro del suo attacco per fornire un punto d’appoggio in più alla manovra, per attirare i difensori creando spazi ai centrocampisti e alle ali (a Maiorca Pedro e Jeffren, pure lui preferito al lebbroso Bojan) e anche per andare a prendersi qualche cosa in area avversaria, pure messa in conto la carenza d’istinto.
Vedremo come lo svedese risponderà ora a Londra, ben altro scenario. Intanto per tutte e due le gare con l’Arsenal il Barça perde Iniesta, assenza tremenda anche con la miglior versione del manchego lontanissima, proprio nel momento in cui invece torna disponibile Xavi, che può comunque comporre una coppia di piena garanzia con un fenomenale dodicesimo come Keita.

La cosa più interessante vista nell’ultima giornata della Liga non viene dalle due scontate partite delle grandi, ma dal Villarreal. Che fine ha fatto il Villarreal, vi chiederete? Vivacchia a metà classifica, ma la smitragliata sulla Croce Rossa Sevillista (3-0) potrebbe servire come trampolino di lancio verso un ritorno alla zona coppe, mai troppo tardi per una corsa così al ribasso.
Interessante dell’affermazione amarilla è la scelta ultra-offensiva di Juan Carlos Garrido: tre punte purissime tutte insieme, Rossi-Nilmar-Llorente, e nessuna messa a fare da guardalinee, nossignore, tutte vicino alla porta avversaria; in più un centrocampo anch’esso molto offensivo, con Bruno e due mezzepunte come Cani e Ibagaza (assente Senna, buona notizia il ritorno dall’infortunio di Cazorla, un paio di minuti nel recupero per lui). Garrido giocava con le tre punte nel Villarreal B, ma non erano così offensive, e anche nell’esperimento già tentato con la prima squadra al Bernabeu, c’era un David Fuster sulla destra e posizioni comunque più arretrate dovute alle caratteristiche dell’avversario.
L’impatto, scenico e pratico, è stato fortissimo: due gol di vantaggio già dopo 17 minuti e almeno altre due occasioni nitide davanti a un Sevilla frastornato. In qualche momento si sono anche pestate i piedi, ma le punte son state intelligenti e generosissime nel non offrire alcun punto di riferimento all’avversario: in certi momenti partivano un po’ ammucchiate al centro, ma poi subito si fiondavano una a destra una a sinistra l’altra in verticale, con molti tagli a separare i difensori avversari (collettivamente impreparati a movimenti del genere) l’uno dall’altro aprendo varchi sanguinosissimi.
Si segnala in particolare Nilmar, nessun gol ma assist per i primi due. Il brasiliano ha stentato a carburare ad inizio stagione, non fiuta la porta come un segugio (9 gol finora, e un lungo digiuno nelle prime uscite), ma ha conquistato la credibilità che il suo talento merita. Più freddezza davanti al portiere non guasterebbe, ma già così apporta tante cose: eccellente attaccante di manovra, elegante e velocissimo nelle percussioni palla al piede, innescate da stupendi controlli a seguire. Né lui né Rossi cercano con grande frequenza il movimento fra i due centrali, quello è il pane di Llorente, e giocare in tre davanti assieme a Joseba può aiutare anche Nilmar e Rossi a prendere palla nelle zone che preferiscono senza per questo togliere profondità alla squadra.
Interessante insomma la soluzione delle tre punte, ma non è tutto rose e fiori. Il poter disporre di uno sfogo offensivo così immediato e profondo non deve andare a scapito dell’altro aspetto, il controllo del centrocampo, il marchio di fabbrica del Villarreal in tutti questi anni. Subito portato a verticalizzare, il Villarreal ieri non ha così lucidamente interpretato quei momenti in cui temporeggiare e raccogliere tutta la squadra attorno al pallone. Nella ripresa lo ha lasciato a un avversario impotente e si è dedicato al contropiede, ma nel primo la manovra è stata eccessivamente spezzettata, per quanto acuminatissima nei frangenti conclusivi.
Il Sevilla ha disposto di più possesso-palla, e la fortuna è stata che non ha saputo cosa farsene (gli andalusi nel mezzo più che dei centrocampisti hanno dei portapacchi, nulla di nuovo), sennò con una circolazione un po’ meno macchinosa avrebbero facilmente potuto creare delle situazioni di superiorità numerica sulle fasce, aggirando il terzetto di centrocampo del Villarreal, numericamente troppo ridotto per coprire in ampiezza e non sempre supportato da pronti ripiegamenti degli attaccanti (per loro indole non portati a rientrare così rapidamente, e comunque tendenzialmente più distanti dal centrocampo una volta persa palla in una squadra che verticalizza subito e non sale con tutti gli effettivi). Non sempre convincente anche la linea difensiva (con centrali i due argentini Gonzalo e Musacchio, innesto dal Villarreal B: in assenza di Godín Garrido lo preferisce a Marcano), schierata alta ma in alcune occasioni maldestra nell’eseguire il fuorigioco, grata a Luis Fabiano per aver sbagliato due gol davanti al portiere che il brasiliano di solito realizzerebbe anche bendato e con le mani legate.

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venerdì, marzo 26, 2010

Il punto sulla ventottesima giornata.

Solito film al Camp Nou. Trama confusa, grandi interpreti al di sotto delle loro possibilità, finale consolatorio scontato nel tentativo di mascherare le carenze dell’intreccio. Fuor di metafora, è tutta la stagione che il Barça gioca la stessa partita: il suo gioco non riesce a farlo, stenta ma alla fine la spunta sempre, vuoi per le superiori individualità, vuoi per il divario incolmabile con quasi tutte le altre squadre della Liga, vuoi per una concretezza disarmante che il gruppo di Guardiola ha saputo evidenziare in mancanza del gioco. Ditelo a bassa voce, mi raccomando, ma è proprio un Barça “cinico e spietato”, secondo uno dei peggiori stereotipi che il calcio sa riservarci.
Però continua a lasciare perplessi il fatto che di fronte ad avversari che di volta in volta propongono la stessa ricetta (pressing alto a soffocare l’inizio dell’azione blaugrana già dai difensori), lo squadrone culè rimanga praticamente senza risposte. Ancora di più nel primo tempo di mercoledì sera, contro un Osasuna che vanta forse la migliore organizzazione difensiva di tutta la Primera. Non sono mai stato un fan di Camacho, ma a Cesare quel che è di Cesare, soprattutto per la competitività che i rojillos hanno mostrato nelle sfide con le due grandi, proprio quando possono esaltare la loro qualità tattica senza il peso del dover fare la partita.
Un pressing ultra-aggressivo ma molto ben ragionato: il Barça abbassa Busquets sulla linea dei difensori per avere la superiorità ad inizio azione, ma l’Osasuna risponde mandando l’esterno alto nella zona del pallone a pressare su uno dei due difensori centrali blaugrana, per evitare di mandare avanti un centrocampista e mantenere così la parità numerica in mediana, ovviando poi al possibile buco difensivo sulle fasce con la pressione altissima dei terzini: in più di un’occasione Azpilicueta e Monreal vanno in pressione fino alla trequarti.
Manovra blaugrana in corto circuito, non decolla mai nel passaggio fra difesa e centrocampo, l’unica possibilità sono sporadiche percussioni (leggasi: Messi) originate da palle perse in disimpegno dall’Osasuna o episodi comunque slegati. Guardiola si gingilla con cambi di modulo continui, dal 4-3-3 (ma con Messi centrale dietro Ibrahimovic) al quasi 4-2-4, e di nuovo al 4-3-3, ma i numeri da soli non bastano, gli spazi si trovano solo coi movimenti giusti e non con le formule magiche. Allargare il campo quando l’avversario cerca di restringerlo, offrendo magari un passaggio sicuro in uscita ai difensori con brevi spostamenti dei due centrocampisti centrali verso le fasce (Keita è un mago di questo movimento, ma è entrato solo nel secondo tempo), oppure cercando subito il lancio lungo per la sponda aerea Ibrahimovic, per quanto l’idea sia così poco familiare in casa blaugrana.
Ma niente: l’Osasuna nel primo tempo si avvicina spesso all’area culè, il dominio territoriale (che si può ottenere anche con un possesso palla sotto il 40%) gli permette di rubare palla subito, con pochi metri da percorrere e giocatori velenosissimi nell’uno contro uno come Masoud di punta (centravanti improvvisato per le assenze di Aranda e Pandiani: l’emergenza totale spinge poi ad adattare Vadòcz, un mediano, sulla trequarti) e Juanfran all’ala destra. Peccato però che la superiorità del secondo su Maxwell duri poco e che il prestigiatore iraniano come troppo spesso capita si perda in un bicchier d’acqua, e peccato soprattutto che in apertura sulla conclusione a botta sicura di Vadòcz ci sia un Víctor Valdés ancora una volta provvidenziale. Straordinaria stagione dell’estremo blaugrana, mai troppo considerato, ma a tutti gli effetti un signor portiere: la titolarità nazionale di Iker trascende certe considerazioni, ma è Valdés quello che sta offrendo il rendimento migliore, e nettamente pure.

La ripresa vede progressivamente inclinare la bilancia verso i padroni di casa. Fa bene Guardiola a inserire Pedro (per Henry), cercando una ripartizione più razionale degli spazi, tornando al 4-2-4 e occupando le ali per abbassare i terzini e il baricentro dell’Osasuna, ma è anzitutto un fatto fisiologico: il pressing alto è molto dipendioso, non sul piano atletico (questa è una leggenda: se accorci in avanti hai anche meno metri di campo da percorrere) ma sul piano mentale (lasci più spazi alle tue spalle e quindi nel mantenere le distanze giuste devi metterci una concentrazione maggiore rispetto a quando semplicementi ti ammucchi vicino alla tua porta; inseguire l’avversario è poi più stressante che “riposare” col pallone fra i tuoi piedi). Naturale perciò che l’Osasuna col passare dei minuti si limiti a presidiare la propria metacampo, e che a un Barça pur non travolgente basti aspettare il momento e l’occasione giusta per prendersi i tre punti.
Ibrahimovic, servito dal fondo da Iniesta, si sblocca e sblocca il risultato, poi arrotondato da Bojan (subentrato proprio a Zlatan) nel finale. Notazione sullo svedese, e mi prendo tutte le responsabilità di quello che dico: ha giocato bene, per quello che ha potuto. Non perché abbia brillato nelle azioni individuali, ma perché si è messo al servizio della squadra con movimenti intelligenti (come nei primi mesi della stagione), incontro al pallone spalle alla porta, qualche volta in profondità, altre nello spazio fra centrale e terzino avversario (una sua specialità), aprendo agli inserimenti dei compagni.

Madrid a valanga. Dopo due partite abbastanza modeste con Valladolid e Sporting, prevedibili dopo la mazzata della Champions, il Real Madrid ritrova il calcio che preferisce incenerendo un Getafe che non finisce di stupire per la sua inconsistenza contro le grandi. Al Camp Nou, contro uno dei tanti Barça dimenticabili della stagione, per di più in inferiorità numerica, aveva preso un gol in contropiede difendendo in 4 contro 2 (!!!), qui non arriva a estremi del genere, ma una volta incassata la solita punizione a scendere di Ronaldo (più morbida però, perché dal limite dell’area) perde ogni coesione e incassa altri tre gol solo nel primo tempo.
Non è quella di Míchel una squadra precisamente da buttare, anzi è fra le poche piacevoli e interessanti del campionato, con una sua idea di gioco e una sua personalità definita, peccato però che questa personalità sia la stessa della neve che si scioglie al sole. “Falta sangre”, recitano come un mantra le cronache che descrivono il Getafe, ed è proprio così, non si tratta di una semplificazione giornalistica.
In tutto questo il Real Madrid va come un rullo compressore: nel confronto, il Barça ha più forza mentale e più maturità, ma non c’è dubbio che i merengues creino occasioni con molta più facilità. Nel 4-2 di Getafe più che soffermarci sulla solita prestazione-monstre di Cristiano Ronaldo, “provocato” dal Messi della settimana scorsa (il secondo gol è una disarmante dimostrazione di superiorità, quasi spacca la faccia al portiere), o sulla semi-invincibilità del Pipita entro i confini spagnoli, preferiamo sottolineare altri dettagli: il cambio nella disposizione del centrocampo (non rombo ma 4-4-2 più classico, con Xabi Alonso e Gago al centro e Van der Vaart e Granero finti esterni in stile-Villarreal: naturalmente nessuno sente l’assenza di Kaká), il ritorno di Sergio Ramos sulla fascia (finalmente), e soprattutto la splendida prestazione di Gago.
Questo è un punto importante: la zona meno coperta del Madrid quest’anno è rappresentata proprio da quel nugolo di mediani, mezzeali, mezzi esterni mezzi chissàcosa che dovrebbe affiancare Xabi Alonso, rombo o non rombo. È proprio qui che la cessione di Sneijder si è rivelata l’unica mossa di mercato davvero sbagliata, ed è qui che Pellegrini ha fatto tanti tentativi senza mai convincersi per un assetto definitivo: prima 4-4-2 con Lass vicino a Xabi, poi rombo con Lass a destra e Marcelo a sinistra, poi Marcelo di nuovo terzino e un po’ Granero un po’ Van der Vaart un po’ Guti mezzala sinistra. Nessuno ha mai convinto pienamente, per una questione di caratteristiche tecnico-tattiche (Lass e Marcelo), di personalità (Granero), di continuità di rendimento (Guti) o di continuità d’impiego (Van der Vaart). Quelli meno considerati son stati Mahamadou Diarra e proprio Gago, l’argentino meno di tutti. Sembrava un giocatore bruciato da smaltire al ribasso nel prossimo mercato, invece forse non è ancora troppo tardi, perché quanto mostrato ieri dalla “Pintita” (da non confondere col Pipita) si avvicina molta all’ideale del perfetto socio di Xabi Alonso.
Un tocco e mi smarco verso lo spazio libero, un altro tocco e mi cerco un altro spazio ancora: movimento intelligente e costante al servizio di una manovra fluida ed elegante. L’azione del secondo gol di Higuaín è un vero “momento Boca Juniors”, che ricorda la miglior versione di Gago, quella promettente degli inizi e non quella che corre a vuoto dell’era Schuster. Un lusso se confrontato con il Lass visto sabato scorso con lo Sporting (e non solo sabato), così funzionale alla manovra da finire con l’eseguire praticamente una marcatura a uomo su Xabi Alonso.

Jiménez, fine corsa. L’evento dell’ultima giornata però è l’esonero di Manolo Jiménez da parte del Sevilla. Esonero che era nell’aria, ancora di più dopo un’eliminazione deprimente dalla Champions e un inaccettabile pareggio casalingo con il Xerez che fa perdere il quarto posto, ma… è una decisione veramente giusta?
Personalmente non sono mai stato gentilissimo con Jiménez (peraltro un signore al momento dell’addio, ringraziando anche i giornalisti che lo hanno criticato “per avermi fatto crescere come professionista e come uomo”): anche se non solo per colpa sua (l’ex mago Monchi non azzecca un acquisto da due stagioni), la sua gestione ha inequivocabilmente rappresentato un progressivo appiattimento e banalizzazione del modello di Juande Ramos, però posso anche dire che questo Sevilla in questa Liga il quarto posto lo aveva ampiamente alla portata, sempre escludendo possibili contraccolpi piscologici e crisi all’interno dello spogliatoio che noi non possiamo conoscere.
Forse si poteva andare avanti fino a fine stagione così, e rifondare con calma in estate: in una situazione così provvisoria, ha lasciato perplessi la ricerca immediata di un nome pesante come Luis Aragonés, ma il Sabio si chiama così per qualche motivo, e ha capito che una situazione così provvisoria e raccogliticcia avrebbe potuto solo intaccare la fama di padre calcistico della nazione acquisita dopo l’Europeo. In mancanza di alternative così si siede sulla panchina un uomo del club, Antonio Álvarez, già vice di Juande Ramos, e un semplice traghettatore sembra proprio la soluzione migliore.

Valencia, la Champions si avvicina. Terzo posto e un bel cuscinetto di punti sulla quinta: il futuro sorride al Valencia. È una squadra imperfetta, ancora lontana dall’essere una grande, ma coi margini di miglioramento più interessanti di tutte le outsider alle spalle del duopolio. Qualificarsi alla Champions potrebbe permettere di trattenere i pezzi pregiati, spendere qualcosa (poco) per ritoccare la rosa e dare ancora tempo ad Emery per consolidare il progetto.
La partita di mercoledì col Málaga riassume ancora una volta le discontinuità e le imperfezioni della squadra, nel passaggio fra un primo tempo giocato in scioltezza e una ripresa spezzettata e confusa, che dà quasi spazio alla rimonta di un Málaga molto indebolito dall’assenza del suo uomo-chiave Duda, che dalla fascia è il vero regista della squadra. In assenza del portoghese è quasi nulla la transizione offensiva del Málaga, e questo aiuta il Valencia a dominare in tranquillità il primo tempo, senza risentire dell’incredibile serie di infortuni in difesa (stavolta si rompe Miguel a partita in corso, e a fare il terzino destro ci va Alexis, con l’ala Jordi Alba confermata per mancanza di alternative sulla fascia difensiva opposta), perché quasi mai sollecitato nella propria area di rigore.
Aiuta questo e aiuta soprattutto la continuità della connessione Banega-Silva, una miniera d’ossigeno perché permette al Valencia di vivere costantemente nella metacampo altrui, restando corto ed esaltando la mobilità degli uomini d’attacco in maniera più continua e senza spezzare la squadra in due. Come ripetuto fino alla noia, è tutta qui la differenza fra un Valencia incompiuto e un Valencia che vuole invece pensare in grande: lo dimostra, ma da un punto di vista negativo, anche il secondo tempo, quando la connessione Banega-Silva si attenua e si accentua la distanza fra doble pivote e trequarti, rendendo perciò molto più discontinua e approssimativa l’azione offensiva. Il Málaga guadagna campo, ma per fortuna del Mestalla non punge mai troppo.

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lunedì, marzo 22, 2010

La settimana del paranormale.



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venerdì, marzo 19, 2010

Valencia-Atlético, ne resterà almeno una.

Dopo i disastri della Champions, le sofferte ma non immeritate qualificazioni di Valencia e Atlético Madrid ai quarti di finale della Coppa Uefa rappresentano una boccata d'ossigeno. E anche il sorteggio che stamattina le ha poste di fronte non è male, visto che garantisce la presenza di una spagnola nel rush finale, anche se la semifinale contro la vincente di Benfica-Liverpool si preannuncia assai ardua.

La partita della serata di Uefa è indubbiamente il pirotecnico 4-4 fra scapoli e ammogliati travestiti da giocatori del Werder Brema e del Valencia. Vedere il Werder Brema è ogni volta un viaggio oltre i confini della logica. Non solo quell'esaltato di Thomas Schaaf non cambia mai, ma con gli anni peggiora pure. Arriva a giocare con Pizarro-Almeida-Marin-Özil-Hunt e Rosenberg terzino destro (!), ma ancora di più è l'atteggiamento della sua squadra a lasciare stupefatti: attacchi in massa senza nessun ordine e senza nessun criterio, con gli occhi iniettati di sangue e la bava alla bocca ogni secondo della partita. È chiaro che essendoci il talento ed essendoci estrema convinzione e intensità, l'avversario può vedere i sorci verdi, ma è anche vero che se questo stesso avversario si ferma un secondo, si guarda attorno e pensa in porta ci arriva fischiettando. Il Valencia fa tre gol nel primo tempo facili facili, senza bisogno di elaborare l'azione, verticalizzando sempre a palla scoperta contro una difesa dalla coordinazione peraltro ridicola: una pacchia per Silva, che fa due assist, e Villa, che segna una tripletta.
Ma prima di mettere il naso in casa d'altri bisogna guardare nella propria, e qui va detto che il Valencia, sebbene più sobrio in linea generale, ha anch'esso le sue enormi difficoltà dietro: sempre nel primo tempo, il Werder trova una sorta di autostrada nello spazio fra Miguel e Marchena, sul centro-destra della linea difensiva, e in tutta la partita costruirà una valanga di occasioni, sfruttando anche la forzata improvvisazione imposta ad Emery dagli infortuni (stavolta cade in battaglia Marchena, nella ripresa finisce a fare il terzino Jordi Alba, che è un'ala, e insomma vi lascio immaginare...). Cioè, il Valencia non ruba nulla, ma discorso analogo, e anzi più enfatico, si sarebbe potuto fare nel caso contrario per il Werder, che può anche maledire un César che come il vino migliora invecchiando, buon per il club che fra i pali ha toppato l'investimento estivo su Moyá. Inutile ribadire come il Valencia debba crescere tantissimo nella capacità di controllare le partite e imporre il gioco.

Più convincente, almeno ieri, l'Atlético che elimina lo Sporting con il 2-2 dell'Alvalade. Quique parla del miglior Atlético della stagione nel primo tempo, e non va tanto lontano, essendo anche gli standard di riferimento quello che sono.
Comunque, un Atlético che pian piano cerca di costruirsi una credibilità come collettivo: migliora l'organizzazione in fase di non possesso, da Quique fissata su un blocco medio-basso (attaccanti in pressing poco oltre il cerchio di centrocampo-difesa più vicina all'area di rigore che alla metacampo; del tutto abolita la difesa altissima e la disastrosa tattica del fuorigioco della gestione di Abel) che assicura raddoppi e coperture reciproche discretamente puntuali, anche se ciò non assicura la fine delle stupidaggini individuali (il solito Perea che si dimentica Liedson sull'1-1) o delle ataviche incertezze nella difesa delle palle inattive (beffardo il 2-2, ma anche altre situazioni salvate con affanno).
In fase di possesso rimangono grandi le difficoltà a difesa avversaria schierata: qui non solo l'Atlético accusa l'irrisolto deficit in cabina di regia (Raul García scommessa ampiamente persa) e la propensione dei difensori a disfarsi del pallone al minimo accenno di pressing, ma anche una certa prevedibilità nei movimenti senza palla. Dovrebbero vedersi più incroci e più scambi di posizione fra i quattro elementi offensivi, in modo da rendere più difficili le letture difensive avversarie. Un esempio è il secondo gol di Agüero, più che mai Romario II: capolavoro individuale, ma prima della verticalizzazione di Reyes apre lo spazio sulla trequarti proprio un incrocio fra l'andaluso e Jurado, premiato con la titolarità al posto di Forlán dopo il gol decisivo di lunedì con l'Osasuna. Consolidata la fase difensiva insomma, ci si dovrebbe dedicare ad arricchire quella d'attacco, andando oltre le semplici individualità, pur devastanti.
Dopo la seconda prodezza del Kun si vede il miglior Atlético, sorprendentemente capace di imporre un suo ritmo all'avversario invece che subirlo, congelando gli ardori dello Sporting con un'ottima ragnatela di passaggi nella metacampo avversaria. Il 2-2 dello Sporting arriva proprio allo scadere del primo tempo, e potrebbe quindi rappresentare una svolta psicologica pesante, le cose nel prosieguo funzionano peggio (meno continuità di manovra, difficoltà ad uscire dalla metacampo, cambi di Quique non proprio magistrali, su tutti Valera per Simão) ma tutto sommato l'Atlético nella ripresa tiene, complice una certa leggerezza offensiva connaturata allo Sporting.

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giovedì, marzo 18, 2010

Perchè LUI può.

Non si può parlare di genialità strategica senza cadere nel ridicolo e al tempo stesso offendere tutti quegli altri allenatori che hanno solo la sfortuna di non disporre di un giocatore simile, ma si può parlare di buonsenso nel giudicare la recente svolta tattica di Guardiola: davanti alle persistenti difficoltà della squadra nel proporre il suo miglior calcio, affidarsi al fuoriclasse, costruirgli il miglior habitat tattico possibile perché la squadra possa tornare a crescere intorno a lui. Messi prende per mano i suoi compagni, porta a spasso gli avversari e non lesina gli effetti speciali. Dopo la tripletta di domenica, due capolavori anche con lo Stoccarda. Il miglior Barça deve ancora tornare, durerà ancora un po’ questo regime di tutela del numero 10 su tutta la squadra, ma può comunque rappresentare la base per un’inversione di tendenza.

La svolta tattica è il 4-2-4, e il 4-2-4 ora come ora è il “modulo Messi”. Un’altra via per offrire all’argentino quella libertà che l’anno scorso gli garantiva il 4-3-3, in cui vuoi partendo dall’ala destra per accentrarsi vuoi muovendosi come falso centravanti, Leo riusciva a sguazzare tra le linee e innescare scompensi tattici devastanti nello schieramento avversario. Eto’o agevolava questa situazione, allungando le difese col movimento in profondità senza palla o sacrificandosi come esterno per lasciare la zona centrale a Messi.
Quest’anno la musica è cambiata: altro giocatore, altro gioco. Ibrahimovic tende a venire incontro al portatore di palla, ma il Barça non è riuscito ad assorbire al meglio il suo innesto, faticando al contempo a trovare altre vie di sfogo in profondità. Ibra al centro dell’attacco, senza sfogo verticale, ha reso più agevoli i movimenti ad accorciare della difesa avversaria, e questo ha finito col togliere spazi anche a Messi, costretto a subire più raddoppi spalle alla porta.
Passare al 4-2-4 ha permesso di liberare un po’ l’argentino: fondamentale il recupero di Alves (deludente nella prima parte di stagione) su ottimi livelli per fornire profondità sulla destra, e molto funzionale l’accoppiata con Pedrito che, impegnando grazie alle sovrapposizioni i due esterni sinistri, diminuisce la possibilità che il sistema difensivo avversario si stringa tutto centralmente su Messi. Così Leo, partendo qualche volta anche sulla linea delle mezzeali (ma con movimenti chiaramente più offensivi, da qui la definizione sintetica di 4-2-4), ha più spazio per vedere la giocata fronte alla porta, non solo sulle percussioni palla al piede, ma anche nei passaggi filtranti. Ispiratissimo a tal proposito quello che taglia la difesa tedesca avviando l’azione del 2-0 di Pedro. Messi sembra migliorato anche nelle scelte al momento di concludere le azioni: prima tendeva a concludere quasi sempre di potenza, senza pensarci troppo, ora sfrutta appieno la sua sensibilità di tocco, come dimostra anche la punizione maradoniana due settimane fa sul campo dell’Almería.

Non bisogna però fossilizzarsi sul 4-2-4, i numeri contano relativamente, il punto cruciale è che Messi deve guidare la transizione offensiva. Quindi anche col 4-3-3, meglio Messi centrale, in assenza di Ibrahimovic, come col Valencia o come anche ad Almería, dove l’espulsione di Zlatan paradossalmente non ha fatto che aprire più spazi a Messi. Questo per imprimere all’azione offensiva quel cambio di ritmo e quella verticalità così rare in questa stagione.
Ovviamente tutto ciò non esclude che, col pieno recupero e la piena valorizzazione di tutto l’organico, le cose possano pian piano tornare al loro posto: è importante ad esempio quello che sta facendo vedere Henry. Non importa la scarsa brillantezza del francese ieri, importa la sensazione di maggior profondità che apporta senza palla, e che aiuta la squadra e anche Messi a distendersi. Quindi con un Henry consolidato, Messi potrebbe tranquillamente tornare a partire dalla fascia destra. Non solo, ma potrebbero crearsi le condizioni per un ripescaggio di Ibrahimovic.
Oltre a Messi infatti sono tre le chiavi per fuggire dalla trappola dell’orizzontalità: Alves, Henry e Keita. Alves e Henry per i motivi già citati, Keita invece è un giocatore che quest’anno ha aumentato notevolmente la sua importanza proprio col cambio Eto’o-Ibrahimovic. Ieri in panchina, frenato dalla parentesi della Coppa d’Africa e dai contrattempi fisici, il maliano ha quegli inserimenti senza palla che, pur partendo dal centrocampo, allungano le difese e aprono spazi ai compagni. Il problema è che un suo inserimento costringerebbe a un maggior turnover fra Xavi e Iniesta, però permetterebbe un reinserimento di Ibrahimovic che, con Alves e Henry ad attaccare lo spazio dalle fasce, diminuirebbe il rischio di strozzature alla manovra. Insomma, la rosa è corta ma i margini ci sono.

Non è stata comunque una prestazione capolavoro quella del Barça ieri. Son piaciute sicuramente l’intensità, l’aggressività e la concentrazione messe sul campo (a conferma che i problemi atraversati sono strettamente tecnico-tattici, non c’entra niente avere la pancia piena come nella tarda era-Rijkaard), è piaciuta meno la confusione e la discontinuità di manovra emersa in certi frangenti.
Positiva la voglia di verticalizzare manifestata sin dai primi minuti, meno positiva l’ansia: cercare subito la profondità può essere controproducente se la tua squadra non si è ancora distesa in blocco mantenendo le distanze corrette fra giocatore e giocatore. Se anticipi troppo il passaggio verticale, quando perdi la palla puoi rimanere spezzato in due, e ancora di più rischi di esporti giocando con due centrocampisti centrali. Ieri in alcuni (ridotti ma da tenere in conto) frangenti la partita si è sviluppata da una metacampo all’altro, con qualche possibilità di troppo concessa allo Stoccarda per ribaltare l’azione, possibilità sicuramente da evitare contro le squadre che il Barça dovrebbe trovare nel prosieguo della Champions, assai meno spuntate dei tedeschi. Probabilmente ha pesato anche l’assenza di Xavi, uno formidabile nel “raffreddare” l’azione e controllare i tempi, quello che cioè alcuni critici un po’superficiali definiscono “limitarsi a giocate banali” o “non saper verticalizzare”. Bravi comunque Busquets e Touré a non giocare mai sulla stessa linea in fase di possesso.

FOTO: elpais.com

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mercoledì, marzo 17, 2010

Salvate la Liga!

In basso, sempre più in basso. Vada come vada il Barça stasera, vinca o non vinca la Champions (difficile col livello di gioco attuale), la stagione europea dei club spagnoli è, dopo l’eliminazione del Sevilla ieri sera, un disastro ormai non più rimediabile. Non fossero bastati gli allarmi sempre più tendenti al rosso delle stagioni precedenti, è ora che chi di dovere (società, LFP, Federazione, Re Juan Carlos etc…) tragga una lezione e lavori sul problema, rendendosi conto che il calcio spagnolo è un patrimonio che DEVE andare ben oltre il binomio Barça-Madrid.
Il Real Madrid non potrà uscire agli ottavi anche per il prossimo decennio, è il suo destino storico stare tra le grandi d’Europa, e lo è anche per il Barça: bene o male le troveremo sempre lì. Il problema è quando l’Athletic Bilbao e il Villarreal escono fra le pernacchie in Coppa Uefa (Atlético Madrid e Valencia sembrerebbero sul punto di far loro compagnia), e quando il Sevilla non sa che pesci pigliare contro un CSKA Mosca che le sue armi le ha, ma onestamente va poco più in là di una gara ordinata (comunque un bel passo avanti per una squadra sempre piuttosto anarchica nelle stagioni passate).
Certo, la prossima estate il Real Madrid collezionerà qualche altra figurina multimilionaria, il Barça si farà impacchettare qualche altro flop dall’Italia, e allora si tornerà punto e a capo, i gonzi abboccheranno e telecronisti e giornali continueranno a recitare con la stessa consapevolezza critica di una preghiera la cantilena babbea della "mejor liga del mundo”, formula che ricorda in maniera sempre più inquietante la cecità che per anni abbiamo sofferto qua in Italia nei confronti della scarsa competitività internazionale del calcio nostrano.
Nossignori, la Liga e il calcio spagnolo di club di questo passo rischiano di diventare una repubblica (pardon, monarchia) delle banane calcistica, e in tale scenario Messi che si dribbla tutti non risolve proprio nulla. Spero che in tutto ciò, voi che avete la bontà di leggermi abbiate anche imparato a non prendermi troppo sul serio: quando riferendomi alle cose spagnole uso aggettivi come “fantastico”, “favoloso”, “straordinario”, mi auguro che abbiate fatto vostro il valore prezioso della relatività di ogni discorso. Ogni mercoledì e ogni domenica, il sottoscritto cerca di sorbirsi questa roba, assimilarla, digerirla e rielaborarla in una qualche forma che risulti minimamente gradevole, ma si fa quel che la materia prima permette, e così è sempre più difficile.

Venendo più specificamente alle cose sevilliste, sarebbe anche ora che da quelle parti la facessero finita con le veglie funebri per la dipartita di Dani Alves. Sono passati quasi due anni, e ancora non si è trovato un modo alternativo per far uscire la palla dalla metacampo difensiva. Un muro d’impotenza che ha caratterizzato tutto il primo tempo, incoraggiando il CSKA, partito attendista con un blocco medio-basso nella propria metacampo, a uscire allo scoperto e fare la partita, ottenendo il meritato vantaggio con Necid (bravo ad aprire spazi, ancora un po’ tenero e acerbo come finalizzatore), unica punta, supportata sulla trequarti dal nuovo acquisto giapponese Honda (e il supertalento Dzagoev in panca!).
Di fronte a questo il Sevilla cerca di portare su il pallone appoggiandosi su Renato (elemento più geometrico della rosa, ma alquanto in disarmo) o persino Perotti, che schierato da trequartista arretra per venire a prendere palla in mancanza di rifornimenti. Tutto però resta tremendamente macchinoso, e come al solito è faticosa la comunicazione fra i reparti in fase di possesso. Non c’è nemmeno la scappatoia del lancio lungo a saltare il centrocampo, perché Kanouté parte in panchina e il rientrante Luis Fabiano non è una torre e parte comunque svantaggiato contro i Berezutsky e gli Ignashevich.
Fino in fondo il Sevilla è costretto a fare i conti con la sua impotenza palla a terra perciò: qui una parte della colpa è dell’allenatore, che non ha mai prospettato alternative e vie d’uscita (Manolo Jiménez chiarisce in conferenza stampa a fine partita: “L’unico responsabile sono io”. Non è vero, però è chiaro che il Sevilla dovrà cambiare corso a partire dal tecnico), un’altra della composizione del centrocampo, troppo carente di giocatori in grado di far correre il pallone: soffre il fallimento di Romaric, il declino di Renato e la parziale inadeguatezza di Zokora, giocatore molto utile e appariscente nei recuperi in velocità, ma che queste stesse situazioni al limite in una certa misura le propizia fintantochè non risulta di nessun aiuto alla squadra quando in fase di possesso cerca di distendersi. Non si tratta tanto di limiti tecnici dell’ivoriano, ma di una visione di gioco prossima all’inesistenza e di tempi sempre laboriosissimi nella costruzione della manovra: le strozzature e le lungaggini nel cambiare fronte all’azione offensiva facilitano i raddoppi sulle ali, depotenziando l’arma più affilata a disposizione del Sevilla. Se poi le alternative a centrocampo si chiamano Duscher e Lolo, bisogna pure riconoscere a Jiménez che non può tirarsi fuori la bacchetta magica. Assolutamente imprescindibile nella pianificazione del Sevilla 2010-2011 un rimpasto in questa zona del campo, a partire da giocatori che vedano più in là del proprio naso.

Perotti illude e prelude a una ripresa di assedio, con Kanouté (sempre più centellinato: anche Freddy non è eterno purtroppo) al posto di un Capel che ribadisce tutta la propria inutilità. Kanouté e Perotti ciccano a pochi passi dalla porta un cross perfetto di Navas (il suo Jesusito fra andata e ritorno ha provato a farlo, come sempre), sembrano esserci i margini, ma subito dopo il colpo di grazia: Honda ha un gran sinistro, la sua punizione ha quello strano effetto di collo-esterno accentuato dai palloni dell’ultima generazione, ma rimane inaccettabile la papera di Palop, che in un colpo solo manda all’aria una stagione che per lui si stava rivelando eccellente, sulla falsariga delle annate magiche in cui segnava gol di testa e vinceva la Coppa Uefa parà fondo alle riserve offensive, inserendo anche Negredo al posto di Renato, con Kanouté arretrato a fare da trait-d’union. Ci sta, data l’emergenza e dato un centrocampo incapace di elaborare tanto vale cercare il gioco diretto, ma l’unico effetto è quello di aumentare il disordine e la separazione fra i reparti.

FOTO: elpais.com

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domenica, marzo 14, 2010

Lavori in corso.


Fra la stagione 2009-2010 e la prossima, per il Zaragoza è come se in mezzo si disputasse un’altra temporada ancora. Il Zaragoza che si presenta sui campi spagnoli da gennaio ha ben poco in comune infatti con quello che iniziava il campionato lo scorso settembre. Diverso l’allenatore, diversi buona parte dei giocatori, in una campagna acquisti che per le dimensioni è sembrata più estiva che invernale. Sette nuovi acquisti, sei dei quali titolari: praticamente una nuova squadra.

È da qui che dobbiamo partire, dai giocatori, per spiegare l’inversione di tendenza che sta gradualmente ma sensibilmente portando il Zaragoza fuori dalla zona della retrocessione. L’apporto di José Aurelio Gay dalla panchina infatti finora non spicca particolarmente: l’ex tecnico della filiale ancora procede un po’ per tentativi, dal 4-3-3 di fine 2009 al 4-4-2 coi nuovi acquisti e infine al 4-2-3-1 attuale, e non è delineata ancora chiaramente l’idea di gioco della squadra, tra buone fiammate offensive (soprattutto il primo tempo nella vittoria casalinga col Sevilla) e lunghe fasi di attesa nella propria metacampo, a volte un po’ troppo passiva altre accompagnata da ficcanti contropiedi.

Altri giocatori. Difensori: Pablo Amo (centrale), Laguardia (centrale/terzino destro), Goni (centrale), Paredes (terzino sinistro), Babic (terzino/esterno sinistro), Obradovic (terzino sinistro), Pavón (centrale). Centrocampisti: Jorge López (centrocampista centrale/esterno/trequartista), Pennant (esterno/ala destra), Lafita (esterno/trequartista). Attaccanti: Adrián Colunga, Ikechukwu Uche.

Però quando il tuo centravanti rientra probabilmente fra i migliori 20 specialisti al mondo, si chiama Humberto Suazo e ha un soprannome che solo al pronunciarlo incute terrore negli avversari (Chupete, “ciuccio”), puoi anche pazientare nella ricerca del gioco e goderti i punti sonanti che il tuo bomber ti regala. Immaginiamo i pensieri di Marcelino, cacciato proprio prima che arrivasse l’attaccante tanto richiesto, e immaginiamo anche la frustrazione delle concorrenti, Tenerife, Valladolid e persino Xerez, squadre sostanzialmente non così inferiori quanto a gioco e organizzazione rispetto al Zaragoza, ma consapevoli che un’arma del genere a livello di bassa classifica fa saltare il banco.
Quattro gol in sette partite per Chupete finora, e la conferma della grande padronanza del gioco già evidenziata nel contesto latinoamericano (nonostante questo, lo accompagna una sempre latente sottovalutazione dovuta alla nazionalità non argentina o brasiliana). L’unica cosa non da calciatore è la sua figura, più larga che lunga e con le guance paffute (che ha suscitato ironie e perplessità pure fra i tifosi del Zaragoza), ma per il resto in campo ci sguazza che è una meraviglia. Non è neppure lento, anche se i suoi punti forti sono la qualità e la freddezza nel finalizzare e l’abilità nel trattare il pallone anche fuori dall’area.
Non fa la torre sulle palle alte, è più brutto e molto meno elegante, ma l’intelligenza e la qualità nel gioco spalle alla porta, venendo incontro sulla trequarti, mi ricordano quelle di Kanouté. Splendida difesa del pallone, gran senso del gioco nel gestire la sfera, conservarla, far salire i compagni, scaricarla e ripartire verso la porta avversaria coi tempi giusti, rientra in toto nella benedetta categoria di “quelli che fanno giocare meglio chi gli sta attorno”.Tolta questa fase del gioco però è ben diverso da Kanouté, decisamente più verticale: se possibile cerca di crearsi l’opportunità per partire in percussione palla al piede, pericoloso in progressione e soprattutto nel dribbling stretto. Il resto lo fa la varietà di soluzioni nelle conclusioni a rete e il buon opportunismo, anche se si tratta di un attaccante più portato a costruirsi in proprio le occasioni da gol che a sfruttare semplicemente il lavoro altrui.

Non trova ancora molto spazio l’altro acquisto invernale per l’attacco, Adrián Colunga, ma col tempo quella formata da lui e Suazo ha le carte per diventare una delle coppie d’attacco più interessanti e meglio amalgamate del campionato. Se Suazo nel venire incontro sulla trequarti spalle alla porta ha qualcosa di Kanouté, Colunga ha più di un movimento che ricorda David Villa. La ricerca della profondità fra i centrali o del taglio dall’esterno verso il centro e viceversa richiama il Guaje, così come il baricentro basso, la rapidità e la buona qualità tecnica nello stretto, oltre a un certo istinto negli ultimi metri. Per ora soltanto intravisti, i margini di miglioramento dell’asturiano (anche lui, toh) vanno assolutamente tenuti d’occhio.

Attaccante centrale o esterno, Colunga potrebbe essere una rivelazione (comunque un classe ’84, non un novellino), ma dovrà attendere perché per il momento Gay non prevede le due punte nel suo undici-tipo, e perciò nel ruolo di esterno sono altri a venire prima nella scala delle preferenze. Su tutti Eliseu, altro innesto invernale, e per me resta un mistero la sopravvalutazione di questo giocatore che pare intoccabile per il tecnico zaragocista, più spesso largo a sinistra che a destra (è mancino, ma si adatta perfettamente: anzi si è rivelato al Málaga proprio sulla fascia opposta al piede di preferenza). Velocissimo, non c’è dubbio, anche corretto nel controllare e calciare la palla, con possibilità di fare tutta la fascia all’occorrenza, ma anche terribilmente lineare, senza apporti veramente significativi al di là delle azioni in campo aperto. Non si capisce l’intoccabilità di Eliseu guardando soprattutto all’attuale supplenza di Lafita, per il cui ritorno si è scatenato un pandemonio in estate col Deportivo, e che resta uno dei giocatori più talentuosi della rosa senza ombra di dubbio. Longilineo, potente e veloce in progressione, elegante ed abile nell’uno contro uno, il suo calcio è molto più ricco rispetto a quello di Eliseu per la maggiore propensione al dialogo con gli altri centrocampisti. È destro ma preferisce la fascia sinistra, che gli concede un raggio d’azione più ampio per arrivare alla conclusione a ridosso degli attaccanti; la tendenza al Zaragoza, soprattutto negli ultimi tempi, è stata però quella di schierarlo seconda punta o comunque al centro della linea dei trequartisti, forse non l’ideale per un giocatore sì portato al palleggio ma non uno specialista della rifinitura.

Chi possiede la magia dell’ultimo passaggio e tutti i “tic” del trequartista è Ander Herrera, del quale abbiamo parlato già diffusamente. Aggiorniamo il dossier sul suo conto solo per rilevare come Gay abbia già manifestato l’intenzione di farne un regista, nel cuore della mediana, qualche metro indietro. Intenzione che, sebbene le ultime partite abbiano visto Ander subito dietro Suazo, ha già trovato applicazione in alcune partite (Sevilla in casa e Valladolid fuori, dove il canterano si è beccato pure un’espulsione).
Non convince pienamente il progetto, perché se è vero che un Ander Herrera davanti alla difesa può far fare un salto di qualità all’inizio dell’azione, è anche vero che così rischiano di rimanere sottoutilizzate le prerogative migliori del giocatore, cioè la capacità di smarcarsi, trattenere palla, attirare avversari e liberare compagni sulla trequarti, e il citato ultimo passaggio. Va aggiunto poi che il Zaragoza attuale non è una squadra di qualità e personalità tale da potersi costantemente difendere col pallone nella metacampo avversaria, e che ciò può implicare un’eccessiva esposizione al lavoro sporco di copertura che non si addice alle caratteristiche atletiche e alla mentalità di un giocatore che peraltro deve ancora maturare prima di poter diventare leader della manovra.
Se sorprende la titolarità di Eliseu a scapito di Lafita, non è da meno quella di Arizmendi sulla destra, ma fino a un certo punto. Non proprio uno degli idoli di questo blog, ma è innegabile che agli allenatori piaccia, e se gli trovano sempre uno spazio un motivo ci sarà Se non altro l’irruzione del Chupete risolve radicalmente il problema del suo annoso catastrofico feeling col gol (nelle ore più buie di Marcelino, lui era intoccabile come centravanti…), e così Arizmendi può preoccuparsi esclusivamente di contribuire con la corsa, la generosità e l’intelligenza tattica, che non gli manca. Buoni movimenti senza palla, soprattutto tagli tra le linee, leve lunghe e grande facilità di corsa, ma il tocco di palla grezzissimo troppo spesso compromette le buone intenzioni. Gay ha di che sbizzarrirsi per la varietà di soluzioni sulla trequarti: da non dimenticare Pennant all’ala destra (comunque assai deludente, e ultimamente impiegato solo in alcune occasioni come cambio della disperazione: negativo anche sotto il profilo disciplinare, partente sicuro la prossima estate) e Jorge López, che con la cacciata di Marcelino e il mercato invernale ha perso parecchio credito (e minuti) ma resta un centrocampista offensivo esperto, duttile e valido tecnicamente e tatticamente.

Per quanto rigarda il doble pivote, Gay pare orientato verso la coppia Edmilson-Gabi: il brasiliano un cavallo di ritorno nella Liga dopo la militanza al Barça e la trasparente parentesi al Villarreal, giocatore prezioso per l’esperienza, la personalità e il senso della posizione davanti alla difesa; Gabi non ha mantenuto le promesse di inizio carriera, trasformandosi in un cursore dinamico e intenso nel pressing ma abbastanza limitato sul piano della visione e dei tempi di gioco.Più dotato Abel Aguilar, ex Udinese, regista classico ai tempi delle nazionali giovanili colombiane, riciclatosi col tempo in un ruolo più a tuttocampo: prolifico già nella passata Segunda all’Hércules, aveva iniziato bene anche quest’anno, adattandosi con discreto successo alla posizione di trequartista, dietro una sola punta, che Marcelino, costretto dagli infortuni aveva ritagliato per lui. Ritmi non molto alti, ma buona continuità d’azione, geometria e ottimi tempi d’inserimento (pericoloso anche nel gioco aereo): 4 gol finora, un infortunio di un mese e mezzo lo ha un po’defilato nelle gerarchie. Buona chance per lui stasera a Santander, con la squalifica di Gabi.
Ponzio ha un profilo simile a quello di Edmilson, di centrocampista bloccato davanti alla difesa, e quindi non sarebbe molto complementare una coppia col brasiliano. Per ora l’argentino, forte della propria versatilità, si adatta alla posizione di terzino sinistro (debole la concorrenza di Paredes e Babic, aspetta ancora il recupero da un infortunio il serbo Obradovic), mascherando col suo senso tattico l’inevitabile scomodità che comporta per un destro giocare sull’altra fascia.

Punto fermo del nuovo corso la coppia di difensori centrali Jarošik-Contini, anch’essa nuova di zecca dal mercato invernale, dopo la liquidazione (un po’ impietosa) e il ritorno in Argentina di Ayala. Il ceco si è adattato già dall’esperienza russa al ruolo di difensore, cui lo predispone certamente la stazza e la forza nel gioco aereo, e anche una buona intelligenza tattica, pur non essendo sempre ferreo nella marcatura. Può dare una mano anche ad inizio azione, e non sono male nemmeno i piedi del suo compagno, Contini, che in queste prime uscite è stato una vera sorpresa, per la rapidità d’inserimento e l’autorevolezza dimostrate finora (unica sbavatura, essersi fatto anticipare da Ibrahima Baldé sul pareggio dell’Atlético nell’ultima giornata). Mancino, prestante, molto deciso negli interventi, e con l’intenzione sempre positiva di ricominciare l’azione piuttosto che distruggerla e basta.
Completa la difesa la corsa al posto di terzino destro, che vedrà quasi certamente vincitore Diogo su un centrale adattato come Pulido. L’uruguaiano è ancora in fase di recupero dopo il lunghissimo infortunio, e ove ritrovasse quella sua straordinaria esuberanza atletica potrebbe rivelarsi una delle chiavi di un eventuale salto di qualità, aggiungendo proiezione offensiva alla manovra zaragocista.
Anche fra i pali le scelte invernali sconfessano quelle estive: il titolare d’agosto, Carrizo, fra le ripetute incertezze e la contestazione dei tifosi, ha lasciato il posto dall’ultima con l’Atlético Madrid a Roberto Jiménez, prelevato in corsa proprio dal club colchonero.

FOTO: marca.com, losblanquillos.com

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giovedì, marzo 11, 2010

El fútbol es un estado de ánimo, hombre.

La celebre frase di Valdano rende più che mai la delicatezza del momento del Real Madrid reduce dalla sesta paradossale sconvolgente eliminazione consecutiva agli ottavi di finale di Champions. Dopo la dimostrazione di forza di sabato scorso col Sevilla, la partita di ieri rappresentava un bivio: superato lo scoglio anche psicologico dell’ottavo di Champions, la sensazione era che pochi avrebbero potuto fermare un Real Madrid che al gioco avesse aggiunto anche la convinzione.
Il verdetto emerso però è inappellabile, il Madrid non ha dimostrato sufficiente saldezza e il Lione ha meritato nel complesso delle due partite, e la mazzata rischia di avere ripercussioni della stessa dimensione ma di segno esattamente opposto: cioè ora che la convinzione e l’ottimismo sono ai minimi termini, può andare perso anche tutto ciò che di buono era stato innegabilmente sotto il profilo della costruzione di un gioco e di un’identità di squadra riconoscibile.

Manuel Pellegrini, si torna sempre a lui. Un colpevole lo si deve trovare per forza, e di fronte alla sacrosanta frustrazione del tifo merengue, la critica più becera ha gioco facile. La mia opinione è che da un punto di vista strettamente tecnico sia ingiustificato ritornare ancora una volta a usare termini come “rifondazione” o “repulisti”: c’è un signor allenatore, una signora squadra allestita con un mercato estivo praticamente perfetto in tutti i reparti (unico appunto Sneijder, ma non passa qua la differenza fra la vita e la morte), c’è un progetto.
Ma il punto è che non è più una questione solo tecnica: l’inquietudine per un fallimento che al di là di ogni sfumatura resta mastodontico se rapportato allo spropositato investimento economico rischia di mandare a monte ogni progettualità, incidendo anche sulla lotta per il titolo nella Liga. Per ogni vittoria da qui alla fine della stagione saranno tre punti in più, ma non sarà mai un gradino in più nella scala che porta alla gloria, non potrà mai esserlo nella testa dei giocatori, che potrebbero persino arrivare a vivere come un contentino una vittoria in campionato pienamente alla portata.

L’estado de ánimo ti frega quando nella ripresa non riesci a portare alle conseguenze più logiche quanto espresso nella prima parte. Quaranta cinque minuti ruggisci e altri quaranta cinque minuti ti metti a belare. Quaranta cinque minuti giochi a memoria, altri quarantacinque ti sparpagli per il campo. Non è la prima volta che il Real Madrid accusa un black-out totale nel secondo tempo: era successo anche in Liga, ma Xerez, Valladolid e Almería non ti castigano come può fare un Lione o persino il Milan imbarazzante presentatosi al Bernabeu.
Nella Champions League a eliminazione diretta i dettagli li paghi tutti, e in questo caso il dettaglio da nulla è aver fallito occasioni in serie per chiudere la qualificazione già nel primo tempo. Il resto lo ha fatto l’impreparazione psicologica nel gestire una ripresa nella quale il tempo stringeva e un eventuale gol lionese aumentava la sua pericolosità di minuto in minuto. Immaturità psicologica, proprio così… con in campo Casillas e Cristiano Ronaldo…

E dire che era iniziata come meglio non poteva, col gol immediato di Cristiano Ronaldo e una sensazione di dominio totale che replicava in maniera assai credibile quella di sabato scorso in campionato. Anche senza Xabi Alonso, il ritmo e l’occupazione degli spazi sono quelle giuste. Con Lass al centro, sono le due mezzeali a ispirare la transizione offensiva: Guti sul centro-sinistra più geniale (magnifica invenzione in profondità sul gol di Ronaldo), Granero sul centro-destra più “formichina”, molto continuo e preciso nella sua azione, tempi di gioco puntuali e movimenti in appoggio intelligenti, utili anche per massimizzare l’”effetto Sergio Ramos”: quando l’andaluso arriva più di una volta al cross dal fondo a sorpresa, senza aver prima portato palla, vuol dire che la squadra sta giocando bene. Dall’altro lato invece sono soprattutto gli spostamenti di Cristiano Ronaldo a supplire alla menomazione offensiva rappresentata dall’assenza di Marcelo e dalla presenza in sua vece di Arbeloa.
Il Real Madrid nel primo tempo copre bene tutto, ampiezza e profondità, isola Lisandro dai suoi compagni e recupera palla facilmente con un gran pressing alto. Sposta il blocco difensivo tutto verso un lato, e poi libera l’uomo dalla parte opposta, gli riesce più di una volta. Però fa solo un gol, e forse la svolta di tutto l’ottavo è quel clamoroso palo a porta vuota di Higuaín, dopo aver eluso sia il fuorigioco che l’uscita di Lloris.

Nella ripresa il Real Madrid rimane del tutto spiazzato dalla reazione di grande personalità (più che mai degna di una degnissima qualificata a un quarto di finale di Champions) dell’OL, che fiuta il sangue e azzanna un avversario che semplicemente in campo non si ritrova più.
Non trova più le distanze, non trova più la continuità di manovra, i giocatori cominciano ad andare ognuno per conto proprio. Con la squadra non più così raccolta, si vedono tutte le carenze nella gestione dei tempi del gioco di Lass, Guti e Granero perdono il filo e con la squadra sempre più lunga l’unica maniera di attaccare è sperare in un contropiede o un’azione individuale dei tre giocatori d’attacco, totalmente separati dal resto della squadra.
Il Lione coi cambi di Puel nell’intervallo (Gounalons e Källström per Makoun e Boumsong: il mitico Toulalan arretra al centro della difesa) guadagna in circolazione di palla, ed è chiaro padrone, la sensazione è che il gol in qualche modo debba arrivare. A questo punto l’alternativa per il Real Madrid è: ricompattare la squadra all’indietro o cercare di riguadagnare terreno nella metacampo avversaria. In soldoni: inserire Diarra Mahamadou o Van der Vaart? Pellegrini si gioca la seconda opzione, al posto di Granero. Con coraggio, ma scarso successo, perché Pjanic incombe. L’ultima mossa è quella della disperazione, Raúl per Kaká, alla ricerca della mischia e dell’istinto del gol del capitano. E finisce che il Lione grazia pure in contropiede, un paio di volte.

PS: sondaggione megagalattico di “Marca”: chi volete l’anno prossimo sulla panchina merengue? La frustrazione c’è, ma la testa rimane.

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domenica, marzo 07, 2010

Come Calcio comanda.

Scordatevi le rimonte sgangherate del Capello-bis o gli avventurosi sussulti d’orgoglio del Real Madrid di Schuster. Da 0-2 a 3-2, vittoria col fiatone a fil di sirena, ma signori, il risultato finale poteva essere 5, 6 o anche 7 a 2 e nessuno avrebbe avuto alcunchè da ridire. A questa vittoria col fiatone, che frutta il primo posto a pari punti col Barça fermato ad Almería, il Real Madrid ci è arrivato seguendo coerentemente e caparbiamente il filo conduttore di una prestazione superba, un travolgente concentrato di calcio-spettacolo, il migliore della stagione senza dubbio. Rimane soltanto un punto interrogativo, un grande pesante punto interrogativo, sulla strada che separa questa squadra dalla piena consapevolezza della propria forza, e si chiama Lione/Ottavo di finale di Champions League.

Il miglior Real Madrid è quello che impone un ritmo insostenibile anche per un avversario atleticamente attrezzato benissimo come il Sevilla. Sevilla che sorprende nel quarto d’ora iniziale, entrando in partita prima dell’avversario e passando subito in vantaggio (gli andalusi sfruttano intelligentemente le sovrapposizioni sulle fasce, colpendo il lato meno coperto del rombo di centrocampo di Pellegrini), ma che poi praticamente non esce più dalla propria metacampo.
Il ritmo che impone il Real non è solo quello delle gambe che bruciano l’erba dei suoi atleti (Sergio Ramos, Cristiano Ronaldo, Higuaín, Lass Diarra, Kaká ove ritrovasse il passo: poche squadre in Europa hanno tanta facilità di corsa), ma è anche e soprattutto la velocità impressa al pallone nei suoi continui spostamenti, da un lato all’altro o in verticale. Il pallone corre sempre di più dell’essere umano, ancora di più se a calciarlo è Xabi Alonso. Il meraviglioso basco (drammatica assenza martedì col Lione) ancora una volta legge, collega e dà continuità a tutti quei movimenti offensivi che invece riesce tanto difficile decifrare agli avversari.

Senza punti di riferimento fissi dalla trequarti in avanti, sia al centro che sugli esterni, il Real Madrid devasta l’avversario liberando l’inserimento in corsa, da dietro e quindi con minori possibilità di essere marcato, di un terzo uomo che si fionda nello spazio creato dalle triangolazioni strette o dagli inimitabili cambi di gioco verso il lato opposto eseguiti da Xabi Alonso. Ne sbuca sempre uno libero, i pompieri del Sevilla non fanno a tempo a spegnere un fuoco che subito gli incendiari merengues ne appiccano un altro.
Perfetti Cristiano Ronaldo e Higuaín (avete letto bene, anche Pipita) nello svuotare l’area per aprire varchi ai compagni e poi riapparire a sorpresa per concludere, perfetto anche Kaká (per quanto privo dello spunto individuale) nel coordinare i suoi movimenti con quelli degli attaccanti e degli altri centrocampisti, spesso svariando sulle fasce per favorire la superiorità numerica. Partecipano alla festa con le loro incursioni anche Marcelo e Sergio Ramos (ben più pericoloso così, quando arriva all’improvviso senza palla, piuttosto che quando la porta fino alla trequarti, come tende spesso a fare), e in generale tutto il Real Madrid, perché una grande squadra si muove in blocco senza separare mai nettamente le due fasi. È corta, solidale e aggressiva quando ha il pallone e lo è anche quando lo perde, perchè il Sevilla lo recupera sempre troppo vicino alla propria porta, con centrocampo e difesa troppo schiacciati indietro, e sempre con quei secondi di troppo per riorganizzarsi e ripartire che il Real Madrid sfrutta per accorciare, riconquistare subito palla e imbastire una nuova azione offensiva. Senza soluzione di continuità, a un’intensità spaventosa.

Un’alluvione di palle-gol (Cristiano ancora una volta imprendibile in percussione) che incredibilmente non frutta nemmeno il pareggio a fine primo tempo. Jiménez sa che deve correre ai ripari comunque, e il cambio Capel-Kanouté è più che saggio, perché il maliano può permettere alla sua squadra di salire e guadagnare metri molto più di quanto non sappia fare Negredo (ottimo centravanti ma complessivamente molto più limitato nella lettura del gioco). Non c’è trippa per gatti però, perché il doble pivote Zokora-Fazio (quello che permettono le assenze) è troppo piatto per permettere un’uscita facile dalla metacampo, ma soprattutto perché il Real Madrid è di avviso contrario, e insomma, ubi maior minor cessat.
L’assurdità del calcio però permette al Sevilla di ottenere addirittura il doppio vantaggio, con una di quelle punizioni dalla trequarti che non sono nemmeno tiri ma che una volta che passano fra grovigli di teste e gambe, picchiano sul terreno e rotolano infide verso lo specchio della porta diventano letali. Dragutinovic così si prende tutta la sua involontaria e immeritata gloria.

Si deprime un po’ ma non si scompone il Real Madrid, non avrà la fortuna dalla sua, ma il Calcio sì. Funzionano i cambi di Pellegrini, che riattiva e rende più imprevedibili i flussi di gioco con l’arretramento di Marcelo e l’ingresso di Van der Vaart e Guti come mezzeali: col Sevilla ancorato dietro (Jiménez capisce perfettamente che i suoi non possono controbattere nella metacampo avversaria, quindi cerca di limitare i danni infoltendo la propria, con un centrocampista difensivo in più, Duscher, al posto di Negredo), gli specialisti dell’ultimo passaggio fanno proprio al caso.
Il biondo verticalizza che è un piacere, Cristiano Ronaldo e Sergio Ramos hanno già pensato a pareggiare, peccato però che fra lo strameritato gol della vittoria e il Real Madrid si frapponga una teoria di pali, occasioni mancate d’un soffio e prodezze di Palop (tornato in questa stagione sui livelli dell’era-Juande Ramos) della quale confesso candidamente aver perso il conto. Ma il tap-in di Van der Vaart in pieno recupero non solo è vero, ma è giusto, terribilmente giusto.

FOTO: marca.com

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sabato, marzo 06, 2010

Fai sul serio, José Antonio?

Non è uno scherzo, ma un fatto. José Antonio Reyes il fannullone, José Antonio Reyes l’eterno incompiuto è in questo momento il giocatore più in forma di tutta la Primera División. La prestazione di domenica scorsa contro il Valencia è solo il punto esclamativo di un crescendo costante da quando Quique Sánchez Flores è approdato sulla panchina colchonera.

Reyes aveva inizato la stagione ai minimi storici: la società cerca di sbolognarlo a qualunque costo in estate, senza però trovare interlocutori; Abel Resino non lo considera mai seriamente (Reyes dice di essersi sentito tradito da un tecnico che invece aveva promesso di aiutarlo, e con un opportunismo inversamente proporzionale al buon gusto dichiara subito dopo l’esonero di Abel di sentirsi “ l’uomo più felice del mondo”); i tifosi lo vedono come il fumo negli occhi: mentre si scalda a bordocampo, nella prima partita casalinga del campionato, parte un inequivocabile “Reyes cabrón vete del Calderón” al quale il diretto destinatario risponde con una bella risata.
È anche questo che ha sempre spiazzato del giocatore: vederlo rispondere in questo modo, o anche vederlo scherzare platealmente in campo con gli ex compagni madridisti due anni fa, subentrando in un derby che più lugubre non poteva essere per l’Atlético (tanto per cambiare), può far imbestialire il tifoso che ci vede una mancanza di determinazione e di serietà, ma può anche leggersi secondo la filosofia di un ragazzo che questa roba qua l’ha sempre interpretata come un gioco, non una guerra.
Un ragazzo il cui pregio e limite è sempre stata l’emotività, base dell’ispirazione che è il fattore decisivo nel suo calcio. Quique lo ha saputo prendere per il verso giusto, e il risultato è ora che Reyes immagina e osa sempre di più ad ogni partita, e soprattutto mette in pratica quello che immagina. E sono ovazioni dal Vicente Calderón.

Quique lo ha inquadrato in una posizione di esterno destro che ne esalta l’anima creativa senza ingabbiarlo. Per quanto sia il ruolo in cui ha giocato praticamente tutta la carriera, è difficile considerarlo un esterno puro, tantomeno un’ala. Rimane nel suo gioco qualcosa della seconda punta, il ruolo in cui esordì al Sevilla, quello che a mio parere ne potrebbe valorizzare al meglio il potenziale, pur essendo tutti i suoi allenatori di avviso contrario. Fu Joaquín Caparrós a convertirlo definitivamente in esterno sinistro, con una motivazione difficile da attaccare: “se te ne dribbli quattro o cinque al centro, immaginati quello che puoi combinare con un solo avversario”. Un solo avversario, e con molte più probabilità di prendere palla fronte alla porta.
Tuttavia, Reyes non sente come altri giocatori di ruolo l’azione lungo la linea del fallo laterale e la ricerca del fondo. A lui, se possibile, piace svariare un po’ di più. Fintare sui due lati (cosa più facile partendo in posizione accentrata, per l’appunto da seconda punta) e rientrare sul sinistro per rifinire o tirare in porta. Partendo da destra (dove aveva iniziato a schierarlo Capello già nel 2006-2007 madridista, stagione-summa delle inclinazioni del giocatore: 99% delle gare senza combinare nulla di nulla, e poi nell’ultima col Mallorca entra e vince da solo partita e campionato…) può sentire maggiormente questa libertà rispetto alla fascia sinistra, e lo stesso gioco di rimessa dell’Atlético gli dà campo per spaziare e assumere di fatto la guida delle transizioni offensive biancorosse.
Le qualità tecniche poi, le diamo per scontate: è evidente che un Reyes al massimo nel suo ruolo ha pochi confronti, per l’esplosività, la coordinazione dei movimenti e il fantastico controllo di palla in corsa. Più estroso di Jesús Navas (che però lo supera nettamente per completezza tattica e regolarità di rendimento), un’altra dimensione rispetto a Pablo Hernández, molto più rapido di Riera, infinitamente più “giocatore” di Diego Capel. Nessuno degli esterni sperimentati finora da Del Bosque costituirebbe un ostacolo insormontabile per un Reyes che davvero si mettesse in testa di essere il migliore. Pur non rientrando fra le priorità della nazionale, è giusto che Vicente lo tenga d’occhio da qui a giugno, ma tenendolo sulla corda fino all’ultimo, perché solo così avremmo un Reyes motivato e quindi ispirato.

A dire il vero, un esterno spagnolo che regge il confronto con Reyes sul piano tecnico ci sarebbe, ed è Joaquín. Da sponde nemiche (Sevilla-Betis), i due hanno percorso in comune una traiettoria che in maniera sin troppo pedante li ha portati ad avvalorare lo stereotipo del talento andaluso dedito all’arte per l’arte e riluttante alle faccende di tutti i giorni (nel caso di Reyes poi, gitano d’origine, razione doppia di stereotipi). È come se, fra le generazioni vincenti dei Xavi e Casillas da un lato, e dei Sergio Ramos e Iniesta dall’altro (Iniesta in realtà è coetaneo di Reyes, ma ha trovato spazio più tardi ai massimi livelli), una generazione altrettanto talentuosa, quella dei Reyes, Joaquín e Vicente, fosse, pure per motivi diversi, andata completamente persa. Recuperarne almeno uno alla causa sarebbe un guadagno enorme.

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giovedì, marzo 04, 2010

Gestire la superiorità/ parte seconda.

C’è poco da dire ormai sulla nazionale spagnola, resta solo da aspettare giugno. Fortunatamente la vittoria in scioltezza (0-2) di stasera a Parigi è l’ultima amichevole prima delle convocazioni ufficiali.Fortunatamente perché il rischio è sempre quello di ripetersi: se questa al momento non è la nazionale più forte del mondo ci si avvicina tantissimo, ma ciò va ribadito che non conta nulla: al mondiale sarà decisivo arrivare nelle migliori condizioni possibili psicologiche e atletiche, in quello e solo in quel particolare momento, e anzi può essere persino controproducente arrivare in Sudafrica sulla scia della superiorità mostrata in queste amichevoli.
Superiorità che anche con la Francia come con l’Argentina ha assunto tratti imbarazzanti, e dire che non si è trattato di una Spagna né straordinariamente ispirata né particolarmente concentrata e “cattiva”. Ha fatto semplicemente il suo, fuori portata per la Francia attuale. Solito tourbillon e solita situazione di superiorità in zona centrale, con gli “esterni” Silva e Iniesta (ancora fuori forma comunque) ad accentrarsi attirando gli avversari per creare di volta in volta gli spazi tra le linee o per le sovrapposizioni dei terzini.
Non solo possesso-palla comunque per una squadra eccezionalmente matura e completa, letale anche nell’innescare Villa coi lanci subito in profondità quando l’avversario azzarda la difesa alta, e anche attenta e ordinata nel ripiegare nella propria metacampo. A parte l’abilità dimostrata nel portare la gara quasi sempre nel terreno prediletto (difendersi col pallone nella metacampo avversaria), la Spagna dimostra di sapersi adattare perciò anche a situazioni di gioco apparentemente meno favorevoli alle proprie caratteristiche. Il limite di questa squadra che fa tutto così bene è che rispetto all’altra grande favorita dei bookmakers, il Brasile, dipende di più dal gioco collettivo per fare risultato: soltanto mantenendo questa costante superiorità nella zona del pallone in fase di possesso può aggirare l’avversario e imporsi; non appena questa situazione cessa però altre squadre hanno mezzi superiori da far valere, il Brasile col suo strapotere atletico ancor prima che tecnico (chi lo avrebbe mai detto che il vero fattore che, nel contesto delle big, può fare la differenza in favore del Brasile sia ora come ora il fisico?), ma anche l’Argentina con le azioni individuali di Messi & C.
Qualche notazione sulla formazione di stasera e sui singoli: con Torres ancora da recuperare, Del Bosque ha confermato dopo l’Argentina una sola punta (Villa). La cosa che lascia perplessi però è che nemmeno senza l’alibi delle due punte Del Bosque schieri contemporaneamente Xavi e Cesc accanto a Xabi Alonso. Come con l’Argentina, staffetta fra i due e Busquets dall’inizio. Busquets resta coerente con l’idea di gioco, ma non si capisce per quale motivo rinunciare alle due mezzeali più dotate (se la preoccupazione è difensiva, è fuorviante). Se il resto è più o meno tutto a posto (la coppia centrale Piqué-Puyol, Ramos a destra, Silva e Iniesta falsi esterni, Navas gettato a partita in corso), l’altro dubbio lo suscita l’utilizzo di Arbeloa terzino sinistro: già Capdevila non è il massimo della profondità, ma in una formazione senza esterni di ruolo preferirgli un giocatore adattato, destro naturale (che quindi per aggiustarsi il pallone ad ogni avanzata regala agli avversari decimi di secondo preziosi per recuperare le posizioni difensive) non ha molto senso.

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