mercoledì, maggio 23, 2012

SPECIALE FINALE COPA DEL REY

In occasione della finale di Copa del Rey, e per celebrare anche l'ultima di Guardiola sulla panchina del Barça, pubblico uno speciale che intende analizzare il modello di gioco comune alle due squadre e le affinità e le differenze all'interno di questo modello.
La prima parte analizza le basi teoriche del gioco praticato dal Barça in questi ultimi anni (e ancora prima di Guardiola); la seconda parte prende spunto dalla prima per vedere in cosa l'Athletic di Bielsa si discosti; la terza ripercorre i precedenti fra le due in questa Liga appena concluso per poter anticipare i possibili scenari di venerdì.

Athletic-Barça, così uguali così diversi

Prima parte: il "juego de posición"
Seconda parte: la differenza dell'Athletic.
Ultima parte: Precedenti e possibili scenari.

Ho cercato di accompagnare alle mie pallosissime elucubrazioni teoriche la concretezza dei numeri, e devo perciò ringraziare per la collaborazione "Opta", azienda leader specializzata nella raccolta ed analisi dei dati sportivi, che potete trovare a questi link:



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Athletic-Barça, così uguali così diversi. Ultima parte: precedenti e possibili scenari.


E’ chiaro comunque che venerdì anche la squadra più offensiva della Liga e forse d’Europa dovrà preoccuparsi prima di tutto della fase difensiva, obbligo che il Barça impone indifferentemente a tutti gli avversari.
A questo proposito, è interessante ripercorrere le due sfide di Liga, dove l’Athletic ha proposto atteggiamenti abbastanza differenti. All’andata (splendida partita) la consegna era quella di pressare anche i pali della porta del Barça: si voleva impedire il primo passaggio dalla difesa al centrocampo, e quindi si concentrava una gran quantità di uomini in prossimità del pallone. Il merito del Barça in quella circostanza fu di riuscire a trovare il lato opposto, necessariamente meno coperto dall’Athletic, grazie a un Valdés straordinario nel cambiare gioco soprattutto verso la fascia destra. Saltata la prima linea del pressing basco (i tre attaccanti+le due mezzeali), in più di un’occasione Alves riceveva alle spalle di questa, con campo per correre.
Ciò che frenò il Barça fu in parte l’attacco scelto da Guardiola per l’occasione, con Adriano ala sinistra, Cesc centravanti e Messi a destra. Messi già pronto a ricevere centralmente sui rinvii di Valdés avrebbe potuto fare sfracelli, ma partendo dalla fascia dava un riferimento in più all’Athletic per aggredirlo e non farlo girare. In più tra Adriano e Cesc il Barça minacciava poco la profondità e quindi permetteva a Javi Martínez e Amorebieta di accorciare e giocare d’anticipo.

Al ritorno Guardiola ha invece giocato con Messi centrale e due esterni che gli creavano più spazi per ricevere sulla trequarti, Tello incollato alla linea laterale sulla sinistra e Alexis sempre pronto a tagliare e portare via i centrali dalla destra.
Qui però cambia il concetto difensivo dell’Athletic: non totalmente giudicabile in vista della partita di venerdì per aver preservato Muniain, Llorente e Ander Herrera, nell’occasione però l’Athletic giocò un’ottima partita difensiva a partire da una strategia leggermente più attendista. Sempre “a uomo nella zona”, aggredendo gli avversari, ma con due dettagli sensibilmente differenti: il primo il baricentro più basso, ripiegando e non pressando subito i difensori del Barça; il secondo la maggior attenzione alla copertura degli spazi, nel senso che mentre Ekiza e Iturraspe agivano quasi come due stopper rispettivamente su Messi e Iniesta, alle loro spalle Javi Martínez agiva praticamente da libero, lui che nell’Athletic a noi più familiare deve e ama uscire dalla linea difensiva.
Un Athletic che nell’occasione faceva passare in secondo piano l’obiettivo della riconquista immediata del pallone, pensando più a negare la profondità al Barça. Barça che in questo ciclo di Guardiola ha sofferto più di tutte le squadre che non andavano subito a cercare di rubargli palla ma quelle che aspettavano nella loro area limitandosi a difendere le linee di passaggio sulla loro trequarti, senza andare incontro a Messi e regalando un po’ le fasce ai catalani, cui manca presenza in area piccola e dribbling secco nelle ali, che di fronte a questa situazione spesso ricorrono a un nuovo passaggio indietro verso la trequarti già intasata. È chiaro che mai e poi mai quest’Athletic proporrà qualcosa di simile al Levante, al Chelsea o all’Inter di due anni fa, però quello della gara di ritorno è un precedente che va tenuto a mente in vista di possibili correzioni ad hoc di Bielsa.

Nell’occasione peraltro il Barça riuscì a superare alla lunga il sistema difensivo dell’Athletic con una manovra paziente e ritagliata proprio sulle caratteristiche difensive dell’Athletic. Di fronte alla difesa a uomo di Bielsa la risposta di Guardiola fu accentuarne i possibili inconvenienti caricando il gioco di volta in volta sul giocatore che non ha nessuna marcatura. Poiché l’Athletic gioca con tre attaccanti contro quattro difensori, uno dei difensori blaugrana rimane libero: nell’occasione Piqué e Mascherano furono ancora più presenti nella manovra. Bloccando ali e terzini dell’Athletic con Alves/Alexis da un lato e Adriano/Tello dall’altro, il Barça sgombrava il centro all’avanzata di uno dei due difensori centrali, fino a quando i centrocampisti dell’Athletic non erano costretti alla difficile decisione di cambiare la marcatura, magari correndo il rischio di dimenticare un momento uno fra Thiago, Messi e Iniesta.
Per l’Athletic il possibile vantaggio di un pressing alto come quello dell’andata sarebbe di togliere continuità al possesso-palla del Barça. Va detto che quest’anno i blaugrana hanno perso più palloni del solito sulla loro trequarti, complice la brutta stagione di Xavi (declino?) che ha tolto alla squadra di Guardiola parte della sua capacità di ordinarsi e difendersi meglio attorno al pallone; quindi l’Athletic avrebbe più possibilità di recuperare palla vicino all’area e creare occasioni. Al tempo stesso però se magari con questa strategia limiti nel numero le avanzate del Barça, quelle che rimarranno saranno pericolose al massimo. In poche parole, se il Barça fa filtrare un pallone oltre questo pressing (e almeno uno-due a partita filtrano), Messi ha inevitabilmente troppo campo.
Con l’altro sistema, più attendista, il rischio è quello di non riuscire mai a ripartire, contando sul fatto che giocando a uomo l’avversario può portarti apposta fuori dalla loro zona prediletta i tuoi giocatori migliori, soprattutto Muniain e Ander, e allontanarli troppo da Llorente. A quel punto il Barça creerebbe meno occasioni nitide, ma sarebbe una gara di nervi in una sola metacampo: vince chi ha più pazienza.


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Athletic-Barça, così uguali così diversi. Seconda parte: la differenza dell'Athletic.



A partire da questo modello di base (Barça primo nella Liga per numero di passaggi totali, Athletic terzo), le differenze  fra le due finaliste di Copa del Rey sono però notevoli. Se il Barça di passaggio in passaggio si struttura e si ordina lungo l’asse orizzontale, l’Athletic Bilbao ha l’ossessione della verticalità. Significativo il modo in cui le due squadre concepiscono il gioco sulle fasce (chiarissima la differenza statistica: il Barça è la terzultima che crossa meno nella Liga con 12,5 cross di media a partita, l’Athletic settimo ma con una media, 17,1 molto vicina al Valencia primo classificato con 20, oltre ad essere la squadra con più gol segnati di testa di tutta la Liga, 19, grazie a un certo Llorente primatista con 10 “cabezazos”): il Barça come detto mantiene sempre il riferimento largo come necessità vitale, però nel corso dell’azione solo un giocatore si trova ad attaccare gli spazi laterali. Questo può essere l’ala quando ha la possibilità di conquistare il fondo (soprattutto quando il Barça gioca con la difesa a 3 ed è l’unico esterno di ruolo), oppure il terzino in sovrapposizione. Due giocatori di fascia nel 4-3-3, però generalmente solo uno alla volta resta largo.
L’Athletic all’opposto sovraccarica le fasce. In particolare sulla destra abbiamo visto una delle soluzioni tattiche più originali, interessanti e spettacolari della stagione. Curioso come sebbene nessuno dei migliori giocatori della squadra (Llorente, Javi Martínez, Muniain) vi agisca, sia stata proprio questa zona a definire più di tutte l’identità della squadra. Gran parte del gioco passa per questo lato, per il trio Iraola-De Marcos-Susaeta, un rullo compressore, una miniera di grande calcio.


Iraola non ha fatto che confermare ed esaltare come non mai, con l’allenatore giusto, le proprie qualità offensive, non solo accompagnando l’azione, ma anche portando palla, superando la pressione avversaria e combinando come un centrocampista aggiunto; la stagione di Susaeta invece è stata straordinaria: forse il meno appariscente dei tre, ma forse anche il più completo e continuo.
Partito riserva nelle primissime uscite, reduce da un certo accantonamento nell’ultima gestione Caparrós e alle prese con una crisi di autostima (Rinfacciatagli da Bielsa: “Oiga, Markel, usted tiene un problema. Yo creo en usted, pero usted no cree en usted. No se tiene fe. Y es una pena porque reúne aptitudes”), “Susa” si è rigenerato al punto da risultare insostituibile, spremuto come un limone in tutte e tre le competizioni. Senza numeri palla al piede sbalorditivi e senza accelerazioni devastanti ma con una quantità di contributi utili al gioco della propria squadra che è arduo far stare in una sola pagina. Preziosissima la sua capacità di alternare sempre con criterio “rottura” in profondità e appoggio incontro al portatore di palla, fintando un movimento per poi eseguire l’altro e ricevere palla smarcato: un modo per dare sempre continuità all’azione, sia che si trattasse di offrire lo sbocco per il primo passaggio a difensori e centrocampisti sia per arrivare sul fondo o all’inserimento in area di rigore, dove in più di un’occasione ha fatto valere un tempismo e una freddezza superiori, pur nell’abissale differenza di talento tra i due, a quelli posseduti dall’altro attaccante esterno Muniain.
De Marcos è più limitato, gioca su meno registri, ma nella sua monotonia è l’immagine dell’Athletic di Bielsa. Della sua aggressività, del suo dinamismo inesauribile e della sua ricerca maniacale della profondità. Inizialmente inquadrato come terzino di spinta, un’intuizione già anticipata da Caparrós e perfettamente adeguata alle sue caratteristiche, De Marcos è in realtà esploso come mezzala destra, direi come falsa mezzala perché in realtà il suo comportamento è quasi quello di un atipico “terzo esterno”. Il movimento ricorrente è infatti un taglio senza palla dalla fascia verso il centro, nello spazio fra terzino e centrale avversario; incrociando questi tagli con le proiezioni di Iraola e i movimenti di Susaeta, il risultato è che quando non conquista il fondo con irrisoria facilità l’Athletic comunque schiaccia e sbilancia comunque l’avversario verso quel lato.
La profondità raggiunta da questo trio è evidenziata anche dal dato statistico che vede Susaeta (con 127) al terzo posto e De Marcos al sesto (99) della classifica per tocchi realizzati in area avversaria (Iniesta del Barça invece è quinto, con 109). Segno che da quella parte l’Athletic arriva che è una bellezza.


A questa girandola sulla destra l’Athletic unisce una aggressività in fase di finalizzazione raramente riscontrabile: personalmente non mi era mai capitato di vedere una squadra che in più di una occasione porta i suoi terzini contemporaneamente al cross da un lato e alla conclusione dall’altro. Non si tratta di vedere Aurtenetxe attaccare una respinta appena entrato in area…no, il pazzo va ad attaccare direttamente il secondo palo!!!
Sembra quasi che l’Athletic cerchi nell’area avversaria non una semplice superioriità “di posizione” (ad esempio Llorente in inferiorità contro tre difensori ma che comunque riesce a smarcarsi), ma una vera e propria parità se non superiorità numerica rispetto all’avversario. Sommando a Llorente una delle due mezzeali che si inserisce, Muniain, uno dei tre della catena di destra che va ad aggiungersi in area e magari anche Aurtenetxe, l’Athletic attacca con non meno di 3-4 opzioni l’area di rigore. Se aggiungiamo che il movimento sulla fascia destra per la sua logica è portato a “svuotare” la zona centrale, si capiscono le implicazioni in transizione difensiva dove l’Athletic volutamente accetta un rischio notevole.
Se l’Athletic perde palla sulla trequarti, Iturraspe rimane letteralmente solo a centrocampo, e con una prateria da coprire. Questo spiega anche rispetto alla gestione Caparrós l’accantonamento di San José in difesa da parte di Bielsa: centrale talentuoso ma più compassato e senza la tendenza a uscire molto dalla zona che invece hanno l’ultra-aggressivo Amorebieta e il riconvertito (alla fine con notevole successo) Javi Martínez, che letteralmente si mangia il campo con le sue falcate e che si trova a suo agio nel gestire questi grandi spazi in transizione difensiva e ad accorciare in avanti (e sia lui, nono con 163, che Amorebieta, diciannovesimo con 163, sono fra i primi 20 per palloni intercettati…mentre il possesso-palla tirannico fa sì che nemmeno uno del Barça figuri in questa graduatoria!). Spazi che forse potrebbero essere leggermente ridotti con una piccola modifica in fase di finalizzazione, scaglionando Muniain e Aurtenetxe alle spalle della prima linea di finalizzatori, invece che buttarli tutti sulla stessa linea in area avversaria: si potrebbe guadagnare in entrambe le fasi, perché con giocatori su più linee avresti più possibilità sia di arrivare alla respinta su una ribattuta della difesa avversaria, sia quella di bloccare il contropiede nascente una volta persa palla.
Una semplice differenza nel ritmo e nella tipologia di passaggi ha comunque ricadute profonde in tutti gli equilibri delle due squadre: l’Athletic costretto a cercare più frequentemente di finalizzare l’azione per non avviare i ribaltamenti avversari, il Barça portato invece al passaggio in più se questo serve per popolare maggiormente la fascia centrale e farsi trovare subito pronto quando l’avversario cerca di rilanciare l’azione (tendenza confermata dalle statistiche: dei primi 20 giocatori per passaggi nella metacampo avversaria, addirittura 12 sono culè, mentre dell’Athletic, molto più diretto, c’è solo Ander Herrera, tra l’altro ventesimo con una media di passaggi-31, 9, che è la metà di quella di Xavi-68,5, prevedibilissimo primo classificato; altra conferma, ancora più diretta, dei differenti rischi corsi dalle due squadre, è il numero di parate totali, che vede Gorka Iraizoz al secondo posto della Liga e Valdés invece all’ultimo).

Ad inizio azione l’Athletic sgombra la propria metacampo: i terzini partono alti, i due difensori centrali ben aperti+Iturraspe, vertice basso del centrocampo, avviano la manovra, con tre opzioni principali: 
1) passaggio verso Iraola, e da lì innescare il triangolo con Susaeta e De Marcos;
2) passaggio verso un compagno che dalla trequarti viene incontro: può essere Susaeta, come detto, oppure Muniain retrocedendo e tagliando centralmente dalla fascia sinistra, oppure ancora Ander Herrera. Giocatori che per liberarsi si muovono in senso inverso e in maniera sincronica rispetto al compagno più vicino nella loro zona: per esempio, Susaeta riceve nello spazio lasciato libero da De Marcos che ha accennato la profondità, portandosi via il terzino; Muniain incrocia centralmente nel mentre che Ander si allarga; oppure ancora uno di questi riceve tra le linee sfruttando il blocco di Llorente sui due centrali. L’Athletic prepara bene questi movimenti ed è piuttosto spettacolare vedere come se il difensore non trova da principio il passaggio buono in verticale subito gli si presenta una terza opzione grazie alle rotazioni continue di mezzeali e attaccanti.
3) Terza e ultima soluzione, risorsa d’emergenza anche se non impossibile da vedere, il lancio lungo dalla difesa verso la testa di Llorente, ovvero il mono-schema della gestione Caparrós.

Va detto che questo dell’inizio dell’azione è un aspetto che l’Athletic può ancora migliorare. A volte l’ansia di dettare subito il passaggio in verticale porta ad allontanare eccessivamente il resto della squadra dai tre che iniziano l’azione, che senza opzioni di passaggio sicure rischiano di perdere palla con la squadra spezzata in due in transizione difensiva.
A De Marcos non si chiede questo lavoro, trattandosi di un giocatore praticamente allergico alla zona davanti alla difesa: difficile pensarlo come centrocampista in un contesto diverso da questo Athletic, in una squadra magari che facesse un possesso-palla su ritmi più bassi e che quindi invece di attaccare lo spazio e finalizzare subito gli chiedesse di ricominciare l’azione e venire incontro agli altri centrocampisti (impensabile quindi come centrocampista nella nazionale del tiqui-taca, dove da terzino potrebbero risultare  invece preziose la facilità di corsa e la propensione offensiva); Ander Herrera invece, il giocatore che per caratteristiche sarebbe più portato a controllare i tempi di gioco e aiutare ad inizio azione, ha finito col giocare (benone) molto più davanti che dietro la linea della palla.

Quando poi manca l’insostituibile Llorente i problemi in tal senso si aggravano: le comprensibili ristrettezze della rosa hanno costretto a proporre come sostituto un Toquero totalmente inadeguato da centravanti. Gaizka non sa cosa significhi appoggiare i compagni e propone sempre lo stesso movimento, una diagonale dal centro verso la fascia che alla fine risulta prevedibile e toglie alla squadra un riferimento offensivo su cui poggiare il gioco. Questo ancora prima di sottolineare la mancanza in area che il suo impiego al posto di Llorente comporta, oltre all’impossibilità di semplificare il gioco col lancio lungo verso la torre.
Ha sofferto l’Athletic (un po’ lo Sporting in semifinale, molto l’Atlético nella finale di Uefa) squadre che trovassero il modo di scollegare Javi Martínez-Amorebieta-Iturraspe dal resto della squadra, non pressando direttamente i difensori dell’Athletic ma sporcandogli le linee di passaggio verso Muniain, Ander & C., sui quali sì scatta il pressing.
L’arretramento di Javi Martínez ha portato più capacità nel primo passaggio, ma Amorebieta nonostante un buon sinistro (più potente che preciso comunque) spesso non sa distinguere i momenti in cui portare palla e attirare l’avversario da quelli in cui passare, e così capita ancora di vederlo sparacchiare il pallone, anche se meno delle stagioni passate. Iturraspe dal canto suo è un giocatore dalle buone qualità tecniche e tattiche, ma un po’sopravvalutato se l’intenzione è considerarlo un organizzatore: separato da Ander & C., denuncia qualche difficoltà nel far guadagnare metri alla squadra.
Un problema (ovviamente relativo, perché non dedicheremmo un articolo tanto esteso a una squadra che avesse giocato male) sul quale forse la società potrebbe intervenire contrattando uno o due giocatori più portati a ricevere palla dai difensori e dare i tempi ai compagni, come possono essere Beñat del Betis (scuola Lezama) o Mikel Rico del Granada.


Altro aspetto migliorabile è la partecipazione al gioco del settore sinistro della squadra, dove paradossalmente si concentra la maggior qualità. Strana stagione quella di Muniain, con la conferma di un talento raro e picchi straordinari però più dipendenti dalla qualità individuale (settimo nella media di dribbling riusciti a partita, subito dietro di lui Iniesta, primo naturalmente Messi)che da un inserimento perfettamente riuscito nei meccanismi collettivi. Strano vederlo pesare meno nella manovra di quanto non facciano i cursori della destra. A volte sembra soffrire la posizione di partenza sulla fascia e fare fatica a entrare nel vivo: per quanto Bielsa chieda alle ali dell’Athletic una posizione molto meno rigida rispetto a quelle di altre squadre da lui allenate (tipo l’Alexis Sánchez dell’ultimo mondiale), Iker in più di un’occasione è sembrato attendere il momento in cui una correzione alla formazione di base lo liberasse centralmente (secondo tempo di Siviglia, o la tipica mossa d’emergenza di spostarlo nei tre di centrocampo quando la squadra si trova in svantaggio). In generale possono ancora migliorare i meccanismi fra lui e Ander Herrera, e crescere la loro presenza ad inizio manovra. Non è strano peraltro che nel primo anno di un nuovo progetto una squadra risulti più sviluppata in un settore che in un altro: lo stesso mitizzatissimo Barça del Triplete elaborava praticamente tutto la sua manovra sul lato destro di Messi-Xavi-Alves.

Altra caratteristica particolarissima dell’Athletic, è la marcatura praticamente a uomo. Non si assegna un avversario fisso da marcare, ma una volta che capita nella tua zona lo segui fino agli spogliatoi. Si inizia col pressing altissimo, con gli attaccanti che formano coppie coi difensori avversarii, per proseguire negli altri reparti dove capita di vedere Aurtenetxe recuperare palla più avanti di Muniain, o Iraola ripartire da una posizione centrale mentre Javi Martínez ne ha rilevato la posizione correndo dietro al taglio di un attaccante.
Una soluzione sicuramente dispendiosa: proseguendo nel confronto con lo stile di gioco del Barcellona, il tipo di sforzo richiesto ai giocatori dovrebbe essere sicuramente più pesante. L’ispirazione di fondo è la stessa, ma in un caso deve correre il pallone e nell’altro i giocatori. Lo sforzo è non solo quantitativamente ma anche qualitativamente diverso perché nel caso dell’Athletic implica una componente più fisica della fatica, mentre per il Barça predomina la fatica “mentale”, perché i giocatori pur non correndo necessariamente meno percorrono distanze più corte, ma oltre all’avversario devono sempre tenere presente lo spazio e le distanze dai compagni.
Per quanto non ortodossa, è una soluzione che si è dimostrata abbastanza efficace, e anzi i possibili squilibri difensivi dell’Athletic nascono più, come spiegato sopra, dalle transizioni, dal modo in cui la squadra attacca e si trova schierata non appena perde palla, che dalla vera e propria fase difensiva, che pur lontana dalla perfezione tattica beneficia della grande dedizione di tutti i giocatori.

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Athletic-Barça, così uguali così diversi. Prima parte: il "juego de posición"


Barça-Athletic, finale di Copa del Rey, è la sfida fra le due squadre più offensive della Liga, ed è anche, ahinoi, l’ultimo confronto diretto, almeno per qualche tempo, fra Marcelo Bielsa e Pep Guardiola.
A partire dalla famosa “chiacchierata” di 11 ore fra i due (quando Bielsa, reduce dalle delusioni con la nazionale argentina, staccò dal calcio esiliandosi nella sua casa di campagna, dove un Guardiola deciso invece a iniziare la sua carriera di tecnico si recò in cerca di consigli) e dalle ricorrenti dichiarazioni di stima di Guardiola verso il Loco (inserito fra i propri ispiratori, assieme a Van Gaal, Lavolpe e Juanma Lillo), i due son stati sempre accomunati dalla medesima filosofia di gioco che affonda le proprie radici nella rivoluzione del Calcio Totale all’olandese degli anni ’70.
Guardiola ha rappresentato il punto più alto di un modello come quello del Barça, che partendo dai primi tentativi, un po’ più isolati, di Rinus Michels alla guida della prima squadra nel 1973, e di Laureano Ruiz alla guida del settore giovanile nel 1972, si è affermato con Johan Cruijff e il suo Dream Team, passando per Van Gaal e Rijkaard. Un calcio che concepisce l’equilibrio di squadra a partire dal controllo totale del pallone, superando la separazione schematica fra fase difensiva e offensiva.
Marcelo Bielsa invece passa alla storia del calcio sudamericano come una sorta di “terza via” nello stucchevole dibattito fra “bilardisti” e “menottisti” che ha segnato un’epoca del calcio sudamericano. Chi seguiva Bilardo predicava un calcio cinico (e eticamente non irreprensibile, a dirla tutta) e difensivo; la scuola di Menotti invece un calcio che privilegia la tecnica e la libera espressione dei talenti offensivi.
Bielsa rompe con questa dicotomia perché propone un calcio sì offensivo, ma dall’approccio sistematico, in cui è l’enfasi sull’organizzazione maniacale dei movimenti offensivi l’elemento discriminante, più che il semplice possesso-palla e la libertà dalla trequarti in su che invece caratterizza altri allenatori sì offensivi ma diversissimi dal Loco come il duo Valdano/Cappa o Manuel Pellegrini. Un calcio dagli schemi (a partire dalla scelta fissa per il 3-3-1-3 o 4-3-3) e dai ritmi che richiamano appunto più la tradizione olandese che quella sudamericana. Per bocca dello stesso Bielsa: “Esa es, para mí, la gran clasificación de los entrenadores: los que privilegian la resolución del juego a través de las respuestas individuales o los que acentúan en la preconcepción de esas respuestas. Creo en eso más que en la división entre defensivos y ofensivos. Esa caracterización es sumamente engañosa, porque los equipos no están preparados para una cosa o la otra, sino para las dos, en proporciones que nadie puede determinar de antemano."

La base è quello che in Spagna chiamano “juego de posición” , dove il possesso-palla ha l’obiettivo di creare situazioni di superiorità giocando rasoterra da un reparto all’altro, senza saltarne nemmeno uno (non solo quindi dai difensori ai centrocampisti e da questi agli attaccanti, ma anche il portiere deve se necessario smarcare i difensori alle spalle della prima linea avversaria che va in pressing). Apparentemente banale ma fondamentale non saltare nemmeno un passaggio della sequenza portieredifesacentrocampoattacco, perché di passaggio in passaggio si permette a tutta la squadra di salire in blocco nella metacampo avversaria mantenendo inalterato il disegno tattico (anche se all’interno di questo i giocatori si possono scambiare le posizioni) e mantenendo soprattutto costanti le distanze fra i reparti.
E’ un “gioco di posizione” perché il pallone e le posizioni dei giocatori “viaggiano” sempre insieme: è per questo che in più di un’occasione il Barça rinuncia alla possibilità di contropiede se le posizioni e le distanze fra i suoi giocatori non sono assicurate. Il primo rischio da evitare è quello di perdere il pallone, il secondo quello di allungare la squadra. Il “titic-titoc” di passaggi del Barça che qualcuno può trovare noioso (opinione legittima, qui non discutono mai i gusti) è in realtà una necessità vitale per sostenere un undici tanto offensivo, che diversamente non potrebbe mai sostenere 90 minuti di  andirivieni da una metacampo all’altra.
E’ per questo che il miglior Xavi diventa una preziosa arma difensiva, con la sua capacità di congelare il possesso e dare i tempi per salire a tutta la squadra. Il possesso-palla condiziona la fase difensiva non perché “se la palla ce l’abbiamo noi allora gli altri non ce l’hanno”, ma perché se i giocatori restano vicini quando ho il possesso lo saranno anche quando la perdo, e col blocco già nella metacampo avversaria sarà più facile esercitare un pressing che non nasce dal nulla.
Per fare questo occorrerà “girare” il sistema difensivo avversario, facendolo correre verso la propria porta, con centrocampo e difesa schiacciati l’uno sull’altro, l’attaccante o gli attaccanti isolati e senza il tempo e le distanze per rilanciare il gioco.
Per “girare” il sistema difensivo avversario occorre creare le superiorità da un reparto all’altro: se crei queste superiorità nel mentre che pallone e posizioni viaggiano insieme, hai raggiunto l’equilibrio e il controllo delle transizioni, quindi domini.


Tutto ciò pretende dai giocatori il rispetto di una serie di principi di condotta, con e senza palla, che distinguono il juego de posición da un semplice possesso-palla.

1) I giocatori non si dovranno mai disporre sulla stessa linea, bensì smarcarsi alle spalle della linea avversaria e distribuirsi formando una serie di triangoli per il campo. Da qui il ricorrente utilizzo di formazioni come 4-3-3 e 3-3-1-3.
2) Quello che conta non è necessariamente la superiorità numerica in una determinata zona, bensì la superiorità “posizionale”. Cioè in una determinata zona potranno anche esserci più avversari, ma se riesco a trovare l’uomo libero alle spalle di una linea avversaria allora pongo le premesse per generare un’altra superiorità alle spalle della linea successiva, come in una catena.
3) L’”uomo libero” è un concetto fondamentale nel juego de posición. L’uomo libero lo posso trovare o alle spalle della linea avversaria, come sopra, oppure sul lato opposto, cambiando gioco. Triangoli, giocatori ravvicinati e superiorità numerica nella zona della palla non hanno ragione d’esistere senza un riferimento largo, un “uomo libero” sul lato opposto, che può essere a seconda dei momenti del gioco o l’ala incollata alla linea del fallo laterale, oppure (una volta che l’ala taglia al centro) il terzino che ne rileva la posizione sovrapponendosi, oppure ancora una mezzala o un trequartista che si allontana volontariamente dalla zona della palla per offrire la possibilità di questo cambio di gioco (lavoro che Iniesta svolge magnificamente).
I due aspetti sono strettamente legati e necessari uno all’altro, perché l’uomo incollato al fallo laterale occupando quello spazio creerà lo spazio per un maggior numero di appoggi centralmente, e al tempo stesso allargherà il sistema difensivo avversario costringendolo a dividere le attenzioni: stringo più al centro e lascio scoperta la fascia sul cambio di gioco oppure mi preoccupo anche delle fasce ma corro il rischio di andare in inferiorità al centro? Così sarà più facile trovare l’uomo libero, che sia tra le linee sulla trequarti oppure largo con la possibilità di conquistare il fondo. In generale, anche se i reparti in blocco devono sempre mantenere le distanze, è sempre necessario, non solo sulle fasce, l’uomo che si allontana per generare questi spazi.
È anche chiaro che per eseguire questo gioco bisogna disporre della qualità per far correre rapidamente il pallone (farlo correre molto più di quanto non corrano i giocatori) da un lato all’altro senza rischio di perderlo, perché se alzo tanto i terzini per guadagnare più giocatori al centro, con una palla persa a centrocampo sarei spacciato sul contropiede avversario. Purtroppo questo non l’ha capito chi ritiene il juego de posición l’ennesima formula vincente a prescindere e cerca di scimmiottare malamente il Barça.
4) Posto che si gioca sempre in 11 contro 11 e quindi un uomo in più non ce l’abbiamo, come provocare allora l’apparizione dell’”uomo libero”?  Passando o portando palla a seconda dei casi. Se l’avversario gioca con una sola punta e io con due difensori centrali, allora uno dei miei due centrali sarà libero di avanzare palla al piede. Poiché non trova opposizione, gli avversari si sentiranno in dovere di andargli incontro per impedirgli di avanzare ulteriormente. A questo punto, se un avversario gli va incontro automaticamente dovrà lasciare un po’meno custodito un altro dei miei compagni, che si troverà in “superiorità posizionale” alle spalle della linea avversaria. E’ a quel punto, una volta “provocato” l’avversario, che il mio difensore potrà liberarsi del pallone e passarlo all’”uomo libero”. Questi potrà ricevere, girarsi, puntare, attirare un altro avversario che prima non aveva addosso e smarcare a sua volta un altro “uomo libero”. E così via. Nel juego de posición non ha senso passarsi il pallone tanto per passarselo, se prima non si è attirato l’avversario.
Se invece l’avversario difende con due punte sui miei due difensori centrali, allargo questi il più possibile in modo da generare il “dilemma” di cui al punto 3: il discorso dell’ampiezza per allargare la difesa avversaria e la necessità del riferimento sul lato opposto alla zona della palla valgono in ogni zona del campo, perché i principi per creare superiorità mantenendo la squadra equilibrata sono gli stessi, da un reparto all’altro. Questo tipo di inizio dell’azione potrà avere come variante la cosiddetta “salida Lavolpiana” (il vertice basso del centrocampo retrocede fra i due difensori centrali per avere la superiorità sui due attaccanti avversari). In ogni caso, poiché nessun reparto può essere saltato nell’elaborazione della manovra, sono indispensabili difensori con capacità nell’impostazione. Non solo e non necessariamente buon piede, ma anche la capacità di distinguere quando passare e quando portare palla per generare superiorità.

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mercoledì, maggio 16, 2012

Simeone e il manuale del buon allenatore.



I luoghi comuni sugli allenatori si dividono fondamentalmente in due categorie: la prima vuole che il ruolo di un tecnico si riduca sostanzialmente ad assegnare le magliette prima dell’inizio della partita (e uno dei cavalli di battaglia è che gli schemi servono solo ad ingabbiare la fantasia dei giocatori); l’altra, esattamente agli antipodi, raffigura i giocatori come dei semplici automi e l’allenatore come una specie di figura mitica che “dà il gioco” alla squadra, un po’ come un Dio che elargisce il fuoco e l’acqua agli esseri umani.
L’una e l’altra visione ignorano il fatto che giocatori e allenatore si influenzano reciprocamente nella costruzione dell’identità di una squadra. L’allenatore parte sempre (SEMPRE) dalle qualità dei giocatori per fare emergere le migliori combinazioni possibili fra le stesse e far sì che il tutto sia sempre qualcosa di più della somma delle parti. I giocatori insegnano all’allenatore e l’allenatore insegna ai giocatori.

Questa la premessa teorica per spiegare i cinque splendidi mesi di Simeone sulla panchina dell’Atlético. Splendidi e personalmente inattesi: ammetto di aver militato nelle fila degli scettici al momento della nomina. Dopo il disastro di Manzano, il Cholo sembrava una scelta facile per occultare la mancanza di idee e di alternative con una vecchia gloria gradita ai tifosi e che oltretutto potesse calcare la mano sulla retorica della tradizione storica del club, dell’intensità, della grinta, degli huevos.
Invece dietro la retorica tantissima sostanza. Più ancora che i risultati (in campionato qualche punto di troppo, evitabilissimo, ha negato la qualificazione ai preliminari di Champions) ha convinto l’impressione di solidità di questa squadra, che se non fosse stato per errori puntuali difensivi come blocco ha trasmesso la sensazione di poter giocare per ore senza subire gol.
Solidità e una ricchezza tattica che parte da una lettura magistrale di Simeone del materiale a propria disposizione. L’intervista a El País (“non me ne frega niente del possesso-palla”)dice solo una parte della verità. L’Atlético ha saputo adottare vari registri (attesa dura e pura o un po’ più di iniziativa, blocco difensivo più o meno alto pressing più o meno aggressivo a seconda dei casi), senza mai tradire le caratteristiche dei propri giocatori.

Un po’di buonsenso dopo Manzano, intestarditosi nel cercare di impiantare una sorta di tiqui-taca non del tutto adeguato alla rosa a disposizione. Quando vedi una volta sì e l’altra pure Mario Suárez retrocedere fra i due difensori centrali per iniziare l’azione ti chiedi quale legge umana o divina obblighi una squadra a cominciare per forza tutte le sue azioni con la palla a terra sin dalla rimessa del portiere, cercando di superare la prima linea avversaria. Conseguenze indesiderate del “totalitarismo” della filosofia di gioco del Barça e della nazionale spagnola, che ti portano quasi a salutare con giubilo un rinvio sparacchiato da Courtois per la testa di Falcao.

La bravura di un allenatore si vede più che nella capacità di far giocare bene quelli bravi nell’abilità nel semplificare il contesto ai giocatori meno dotati occultandone i difetti. Mario e Gabi, due giocatori pressochè inutili con Manzano perché incapaci di dare i tempi alla squadra e innescare i reparti più avanzati, son diventati due pedine efficaci perché chiamati a un ruolo più di copertura o semplicemente di accompagnamento del gioco a partire da “seconde palle”, palloni riconquistati, ripartenze che non obbligavano l’Atlético a far passare per forza la manovra dai loro piedi. E questo senza che l’Atlético rinunciasse a fare la partita, perché esistono tantissimi modi di fare la partita.

Altro punto debole della gestione Manzano era la copertura delle fasce in transizione difensiva e a difesa schierata. Manzano provava un centrocampo a rombo, che faticando a imporre il gioco, quando perdeva palla spesso si trovava scoperto di fronte ai cambi di gioco avversari verso le fasce, presidiate dai soli terzini colchoneros.
La primissima preoccupazione di Simeone è stata proprio di tappare queste falle ripartendo da una base difensiva più semplice da assimilare per i giocatori: 4-4-2 classico, due giocatori per fascia, due fra Arda Turan, Diego, Salvio e Koke ad aiutare i terzini. Assimilato fino a rendere l’Atlético una delle squadre più efficaci nel coprire il campo scivolando da una fascia all’altra, secondo un’interpretazione della zona non tanto attendista come quella del Levante ma portata comunque a privilegiare lo spazio rispetto al pallone come riferimento principale (aggredendo il portatore di palla avversario solo in determinante situazioni, ad esempio spalle alla porta e senza il tempo sufficiente per girarsi). Alternativa al 4-4-2, il 4-2-3-1 visto nella finale di Uefa con Diego trequartista centrale e Adrián più bloccato sulla fascia.
Ma la cosa più interessante dell’Atlético di Simeone è stata la coesistenza fra tanto rigore difensivo e una certa scioltezza nei movimenti offensivi. L’obbligo di aiutare i terzini in ripiegamento non ha impedito a Diego e agli altri (più lineare Salvio invece) di proporre incroci e scambi di posizione interessantissimi dalla trequarti in su.
Più che Diego e Arda Turan, estrosi e tecnicamente superbi ma non particolarmente abili nello smarcarsi fra le linee per ricevere nelle migliori condizioni (in questo senso meglio il primo ricambio Koke: meno fantasioso ma dall’intelligenza tattica notevole anche muovendosi oltre la linea della palla, lui che in teoria sarebbe un regista davanti alla difesa), la chiave di questa girandola sono i due attaccanti Falcao e Adrián López.
Falcao giustamente elogiato per le sue qualità di finalizzatore (probabilmente il migliore di tutta la Liga), ma non meno importante nel suo lavoro di appoggio spalle alla porta. Lavoro che, assieme ai tagli di Adrián su tutto il fronte offensivo, è stato determinante nello strutturare la manovra dell’Atlético, regalando in seconda battuta anche a Diego e Arda più spazi e possibilità di ricevere fronte alla porta.

Manovra sicuramente più fluida quando l’Atlético recupera palla già a metacampo (non necessariamente con l’avversario scoperto e il contropiede pronto) saltando il problema dell’impostazione sin dalla difesa, che per quanto Simeone abbia cercato di risolvere aumentando le opzioni di passaggio (terzini alti ad inizio azione, per lasciare più spazio al centro ai 2 difensori centrali+2 mediani contro le punte avversarie, e la possibilità di tagliare fra le linee agli esterni di centrocampo) si scontra con le carenze oggettive dei citati Gabi e Mario e dei difensori.

Ora, rimane l’incognita di sempre quando si parla di Atlético Madrid: la continuità. Il lavoro di Simeone prendendo in corsa la squadra non avrebbe potuto essere migliore, ma iniziando una nuova stagione, in un contesto diverso, saprà mantenere questa solidità? Non potrebbe avere espresso già il massimo con questa squadra nel caso in cui dal mercato non arrivassero i rinforzi necessari (a centrocampo soprattutto) per un ulteriore salto di qualità? Davvero l’Atlético, secondo le dichiarazioni del suo presidente dopo la vittoria di Bucarest, non potrà mantenere Falcao e Diego una volta mancata la qualificazione alla Champions?

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